Archivio per luglio 2007

memorie di un fruttivendolo

La zona dell’ex mercato ortofrutticolo di Bologna è oggi un gran cantiere, nello spazio liberato dalle demolizioni, e in parte un centro sociale abbastanza attivo, l’ex mercato 24. Qualche anno fa, la struttura del mercato era ancora in piedi e ancora “leggibile”, riconoscibile: mentre Fabio lavorava alla sua mostra all’xM24 ho avuto l’occasione di fare qualche fotografia. Perchè sapevo delle imminenti demolizioni, e quel luogo era per me un luogo di memoria personale. Ho fotografato le tracce del mercato all’ingrosso e dell’attività dei suoi abitanti: bilance, pese, qualche insegna di venditore, qualche pubblicità di banane, orari di apertura… poche cose, davvero poche cose. L’unica traccia che mi interessava, che motivava quegli scatti, era invisibile, sconosciuta, perduta per sempre. In fondo, mi rattristava che tutta la vita di quel luogo (che io non conoscevo, ma solo immaginavo, a partire da pochi frammenti) sparisse per sempre, venisse dimenticata, e con essa le tracce di quell’unica vita che lì era passata e che veramente mi interessava. So che mio padre, fruttivendolo a Bologna nel dopoguerra e fino al 1967, faceva parte di quei movimenti di cose e di persone che animavano il mercato nelle prime ore della mattina, quando la maggior parte della gente ancora dormiva.

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Via Fioravanti, 22 luglio 2007 (foto mia)

Ho scoperto solo stasera – grazie alla segnalazione di un amico che abita alla Bolognina – che è stato fatto un lavoro fotografico sul mercato di ieri e l’ex mercato di oggi, tra i promotori il Laboratorio Mercato oltre al comune e al quartiere (oggi Navile) e lo stesso xM24. Lungo la via Fioravanti, dove si affaccia il centro sociale, l’ingresso sopravvissuto dell’ex mercato e il cantiere della nuova sede del comune, gli spazi destinati all’affissione pubblicitaria ospitano una mostra fotografica su due binari temporali (e di uso, ma anche di senso). Alcune immagini ritrovate, non si sa chi è il fotografo (il comune si mette a disposizione se si facesse vivo, si legge sul manifesto), immagino degli anni Sessanta, ritraggono frammenti di vitalità estiva del mercato ortofrutticolo di Bologna: casse di cocomeri, camion e camioncini caricati e scaricati, facce di fornitori e facchini in grembiuli di altri tempi. Queste le immagini per me più commuoventi. Non ho visto la faccia di mio babbo, non c’era in quelle immagini, ma avrebbe potuto esserci. Magari era poco più in là. Appena fuori dal campo visivo dell’obiettivo del fotografo. Non si sa mai che grazie al blog non riesca a recuperare una testimonianza visiva del suo passaggio in quel luogo: se avete qualche fotografia, me la regalate?

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Aggiornamento: forse dovevo intitolare più precisamente l’articolo: memorie (perdute) di una figlia di fruttivendoli…

memorie repubblicane

Di fronte al porto di Ravenna, tra esalazioni di zolfo e paludi abitate da aironi, potete visitare il Capanno Garibaldi, che diede rifugio e salvò la vita all’eroe dei due mondi nell’estate del 1849, quando era inseguito dalle truppe austriache in mezzo alle paludi del ravennate. Già nel 1860 una lapide sul capanno riconosce in esso un luogo di memoria fondamentale per il movimento repubblicano, della Repubblica romana risorgimentale. Questo capanno sarà venerato come la cappella di Betlemme, si legge ancora oggi sulla lapide centrale, la più antica delle 4 oggi visibili sulla facciata: “Questa sacra capanna che nel 1849 tolse alla strage degli erodiani austriaci e di Roma Garibaldi Liberatore i battezzati italiani onoreranno come quella di Betlemme di Nazaret”.
Garibaldi morì il 2 giugno 1882 (notate la data) e da allora (già dal 1879 per essere precisi) la memoria dell’eroe fondatore e del suo mito è custodita dalla Società conservatrice del Capanno Garibaldi di Ravenna.
C’è un collegamento tra questo luogo di memoria e il casone partigiano, che diede rifugio ad altri giovani e meno giovani resistenti, riconosciuti come fondatori di una più recente Repubblica. Così è anche per coloro che oggi conservano, restaurano, promuovono questo luogo di memoria dei repubblicani, non solo ravennati e non solo garibaldini.

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ps. lo sapevate che la divisa con pantalone bucato da una pallottola del grande Garibaldi (che fu notoriamente ferito ad una gamba) è custodita nel museo risorgimentale di Bologna? io no, ringrazio Marco M. per avermelo ricordato.

aggiornamento di fine agosto: segnalo un bellissimo articolo di Valerio Evangelisti del 22 agosto sulle radici delle passioni che popolano queste terre del ravennate, nella speranza che riescano se non a ispirare (dubito proprio) almeno a dare un po’ di fastidio alla politica contemporanea.

memorie del suolo: terra e corpo

Altri indiani, altre memorie. Tra gli articoli di de Certeau raccolti come scritti politici, uno ha attirato la mia attenzione. Capitolo ottavo: la lunga marcia indiana. Pubblicato nel 1976 su Le Monde Diplomatique, mostra la fiducia di de Certeau nei confronti del genere umano, e conferma secondo me la grandezza straordinaria dell’autore.
L’articolo parla della Resistenza degli indiani dell’America “latina”, del movimento che negli anni Settanta rivendica una specificità e un’autonomia (dal dominio del capitale e dell’Occidente, …) fondate su un legame con la terra, con il suolo, e non tanto su una cultura. Quella stessa terra che per prima è stata espropriata e sottratta, e che negli anni Settanta, ci svela de Certeau, è il fondamento di una memoria collettiva e di un’identità, e non ultimo: di un’azione politica. Il suolo custodisce un segreto indiano, inattingibile nonostante tutte le alterazioni subite (terra merce): la terra è una tavola della legge collettiva, della specificità di un popolo che sfugge sia “all’appropriazione violenta” (del capitale) che al “recupero dotto” (della stessa etnologia).

Cito un pezzo lungo, ma molto significativo (p. 129):
“Sapete” diceva Russel Means “l’indiano ha memoria lunga”. Non dimentica gli eroi uccisi e la sua terra occupata dallo “straniero”. Nei loro villaggi, gli indiani conservano acuta consapevolezza della loro colonizzazione lunga quattro secoli e mezzo (Herbert 1972). Dominati ma non sottomessi, si ricordano anche di quello che gli occidentali hanno “dimenticato”, una continua serie di sollevazioni e risvegli che non hanno quasi lasciato tracce scritte nella storiografia degli occupanti. Quanto se non più dei racconti trasmessi, questa storia di resistenze costellate di repressioni crudeli è segnata sul corpo indiano. Questa scrittura di un’identità che è stata conosciuta nel dolore costituisce l’equivalente del marchio impresso dalle torture iniziatiche sui corpi dei giovani. Anche sotto questa forma, il “corpo è una memoria”. Porta scritta la legge dell’uguaglianza e della non-sottomissione che regge non soltanto il rapporto tra sé e gruppo, ma anche i rapporti tra sé e occupanti. Presso le etnie indiane (circa 200) che abitano l’America “latina”, questo corpo torturato e quest’altro corpo che è la terra alterata costituiscono un inizio da cui rinasce, una volta di più, la volontà di costruire autonomamente un’associazione politica.

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Vorrei tanto sapere, ho il terrore di sapere, perchè non ho la stessa fiducia del grande de Certeau, cosa ne è oggi di questi movimenti.
Sento molto vicini gli indiani dell’America “latina” (altra classificazione dei dominatori), da che ho memoria, grazie in particolare a due libri, entrambi sugli indios del Peru, che segnalo: Nathan Wachtel, La visione dei vinti, libro letto, scomparso e credo quasi introvabile (come testimonia la caccia al libro di Fahrenheit) e Rulli di tamburo per Rancas, di Manuel Scorza, morto in un misterioso incidente aereo nel 1983.

memorie indiane/sono un Lakota…

Non so dire a quando risale il mio interesse per gli indiani. I nativi del continente americano, del nord. Forse la loro è la storia di una scomparsa troppo dolorosa, per essere affrontata così, con leggerezza. Va presa con cautela, a piccoli passi.
Per capirlo basta leggere l’autobiografia di Alce nero, raccolta con rispetto da John G. Neihardt negli anni Trenta. Quando lo scrittore andò alla riserva di Pine Ridge per conoscere Alce Nero, il vecchio Sioux, quasi cieco, lo stava aspettando, e gli diede appuntamento per la primaversa successiva: “c’è tanto che dovrei insegnarti. Ciò che io so, mi è stato dato per gli uomini, ed è vero ed è bello. Presto sarò sotto l’erba e tutto ciò andrà perduto. Sei stato inviato per salvarlo, e devi ritornare perchè io te lo possa insegnare”. Così John/Arcobaleno Fiammeggiante torna e raccoglie dalla voce di Alce Nero la storia del grande sogno di un popolo e della sua tragica conclusione, con il massacro di Wounded Knee (Sud Dakota) nel 1890. “Sono un Lakota* della banda degli Ogdala. Il nome di mio padre era Alce nero, e anche suo padre portava questo nome, e il padre di suo padre, perciò sono il quarto dello stesso nome. …”.

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Alce nero davanti ai Sei Avi nella Tenda dell’Arcobaleno Fiammeggiante (illustrazione di Orso in Piedi)

* con il termine Lakota si distinguono le bande occidentalii degli indiani Dakota, comunemente noti come Sioux, nota Neihardt.


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