Archive for the 'arte' Category

al posto della gemini

scrivo un post che avrebbe potuto scrivere lei, solo perchè lei non c’era e io invece sì e allora in qualche modo bisogna pur rimediare, alla sua assenza che lei non c’era, mentre io sì che c’ero (indovinate cosa sto leggendo in questo periodo)

oggi sono stata alla fiera dell’arte di Verona, non chiedetemi come si chiama, perchè il gallerista Fabio Paris ha organizzato un incontro sull’arte in Second Life, invitando Mario Gerosa e Fabio Fornasari a parlare della mostra che aprirà martedì prossimo a Firenze: Rinascimento Virtuale, ideata e curata dal coraggioso Mario, allestita dal visionario Fabio.

Cosa direbbe la Gemini? ma non posso saperlo, so quel che posso dire io: sappiamo che Second Life è un mondo virtuale particolare, non ci sono personaggi o regole, è un mondo interamente costruito dagli utenti (i cosiddetti residenti). Per questo, aggiunge Quaranta, essendo uno spazio particolarmente adatto all’espressione della creatività, non poteva non attrarre gli artisti interessati a sperimentare.
Mario ci dice che forse Second Life può rappresentare una nuova frontiera per l’arte, come in passato è stato per la street art o per i writer, un’arte dal basso, in un certo senso, che non viene in questo caso dalla strada ma da un ambiente virtuale (in senso lato). Mario delude poi le aspettative di molti, annunciando che sarà sopreso chi va alla mostra pensando di trovare donnine nude o ritrattini di avatar: la mostra sarà molto concettuale, altro che, e la colpa è anche un po’ di Fabio (Mario dice il merito).
Un’altra cosa degna di essere ricordata: Mario dice anche che l’arte in Sl è legata all’idea di social network, indistricabilmente direi: l’arte in Sl innesca relazioni, gli artisti che si sperimentano in Sl sono artisti che cercano commenti… Insomma, niente che interessi ai media mainstream (sicuramente non a Lucignolo).

Fabio ci dice qualcosa sull’allestimento concettuale, ma poco: tre parole chiave, che sono immersività, corpo e racconto. O tutte o nessuno. Perchè, lo sapevamo già, questi sono i mondi virtuali. E se volete averne le prove, venite martedì 21 ottobre in via del Proconsolo 12, a Firenze, alle ore 18.

Aggiornamento al 22 ottobre: non siete venuti all’inaugurazione? pazienza, avete tempo fino al 7 gennaio, attenzione che il mercoledì il museo è chiuso.

c’erano una volta le case del popolo

Racconto la storia: a San Vito di Spilamberto, in provincia di Modena, nella Rossa Emilia, c’è una casa del popolo, si chiama Rinascita. Fu costruita nel 1949, a sostituzione e riscatto della cooperativa di consumo che nel 1921 fu assaltata e bruciata dai fascisti. Oggi Rinascita subisce il destino generale del patrimonio culturale e immobiliare del più grande partito della sinistra italiana, di cui fa parte: futuro incerto o fosco, a seconda dei casi. La casa del popolo è stata venduta dai Ds di Modena, pare, a un costruttore privato, racconta Michele Smargiassi sul Venerdì di Repubblica dell’11 gennaio scorso. Reazione: nel paese si costituisce un comitato contrario alla demolizione (per lasciare il posto a villette a schiera?!). Come se non fossero bastati i fascisti allora, adesso ci si mette il mercato.

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La Rinascita è un pezzo di storia locale, e una testimonianza del legame tra architettura, arti visive e politica che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, come ben documenta l’articolo di Andrea Costa, ripreso sul numero di gennaio de Il giornale dell’architettura. Ma non è tanto questo che conta: sulla facciata, a lato dell’entrata, una specie di altorilievo rappresenta l’epopea della resistenza partigiana, che ha portato alla libertà del popolo, di operai, contadini e intellettuali uniti. Smargiassi ha colto il punto: quelle figure non sono figure astratte, ideal tipi da retorica di stato o di partito, sono uomini e donne reali, che hanno combattuto davvero, desiderato davvero. L’uomo al centro è il partigiano Luciano Orlandi, impiccato davvero dai tedeschi. Capite dunque perchè il fratello, Renzo Orlandi, già sindaco di Spilamberto, sia tra i fondatori del Comitato contro la demolizione della Rinascita: “c’è il mio sangue, in questi muri”. Per questo credo che la sola idea di demolire quell’altorilievo sia assimilabile a una profanazione. Alla faccia della giornata della memoria.

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Nel bar del circolo Arci ospitato nell’edificio della Rinascita, affollato di stranieri, non ho trovato tracce di questo comitato di resistenti. Se posso far qualcosa, sono qui.ù

Aggiornamento: sabato prossimo (9 febbraio) ci sarà un incontro alla Rinascita per ragionare sul da farsi, io vado, sperando di poter essere utile a qualcosa. Se qualcuno fosse interessato, è alle ore 9.

¿Es usted feliz?

ma a voi, tutta questa comunicazione, vi rende felici?

Con questo dubbio in testa segnalo una esposizione al Museo delle belle arti di Losanna (Svizzera) dell’artista cileno Alfredo Jaar, fino al 23 settembre.

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Alfredo Jaar, Studies on Happiness, 1979-1981 (fotografia)

la memoria delle pietre

che la memoria ha a che fare con il potere, ce ne siamo già accorti. ci sono memorie che contano poco, nulla. altre che invece… la memoria ha a che fare anche con il capitale, diciamolo chiaramente, che è una forma attuale del potere. credo la maggiore.
quante possibilità pensate abbia oggi la memoria delle pietre? pietre che ricordano da quasi 30.000 anni. pietre mute, o meglio silenziose, che custodiscono una memoria ancestrale, che fino a poco tempo fa oltre che nella pietra era custodita nei corpi, nei miti degli aborigeni. adesso custodita ormai solo dalle pietre.
Marinella Correggia ci parla oggi, dalle pagine di Alias, della distruzione della memoria delle pietre che costituiscono il più importante sito di petroglifici del nostro pianeta, nella penisola di Burrup e nell’arcipelago di Dampier (Australia Occidentale). Se andate su wikipedia, trovate che Dampier è un importante porto industriale dell’Australia. A me viene in mente Bagnoli, chissà perchè nei posti più belli e ricchi di storia e cultura si vanno a impiantare gli insediamenti più inquinanti e invasivi.

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Alcune località a Burrup sono state dichiarate Luoghi protetti dall’Aboriginal Heritage Act (1972-1980) e alcune sono state inserite o candidate al Register of the National Estate australiano, ma si tratta di interventi frammentari, che non tutelano la memoria delle pietre di Burrup. E prima e dopo il 1972, non è dato sapere quanto di quel patrimonio, non censito, sia già andato distrutto, si legge sul sito dell’associazione che ha promosso una campagna per salvare le pietre di Burrup. Che fanno parte dei siti a rischio di distruzione secondo quanto ha rilevato l’ong National Trust of Australia nel 2004. E’ l’unico sito australiano in pericolo nella rilevazione del 2008 del World Monuments Fund (lo è dal 2004).
Ma queste pietre fanno parte o no della memoria dell’Australia? Fanno parte o no della memoria del mondo? No. Forse. Non ancora. L’arcipelago di Dampier è ancora in attesa di essere inserito nel National Heritage Register da tempo (dovrebbe avvenire a giorni, dicono), e non fa ancora parte dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, pur soddisfacendone tutti i requisiti.
Per rinfrescare la memoria a questi smemorati, nel mondo appaiono e scompaiono mobilitazioni auto-organizzate attraverso il sito di stand up for the burrup, la n. 51 è stata il 24 giugno scorso a Milano (la seconda fatta in Italia), la prossima europea sarà in Francia il 22 luglio, ad Airvault, alle 13:45, al locale Festival dei sogni aborigeni. Che tentazione.

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gli oggetti personali dei passeggeri del volo IH 870

Oggi è stato inaugurato il Museo della memoria di Ustica, a Bologna. Con tanto di sindaco e ministro. Ustica è un piccolo frammento di una storia più grande, oscura e inquietante. Per questo, credo, molto importante (anche per questo). A Bologna lo sappiamo bene, dovremmo saperlo. Dobbiamo ricordarlo.
Finalmente ho visto l’opera di Boltanski, che rimane come allestimento permanente ed è visitabile fino al 16 luglio da martedì a domenica dalle 10 ale 18 (il giovedì fino alle 24). Dal 16 luglio al 16 settembre solo il fine settimana, dalle 10 alle 18 (Via di Saliceto n. 5).

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foto mia

L’aero, il Dc9 dell’Itavia, ricostruito come nell’hangar da cui proviene, è un po’ sacrificato nello spazio del museo, i visitatori possono camminargli intorno, e ascoltare i pensieri ad alta voce dei passeggeri, che provengono dai pannelli neri appesi alle pareti. La gente si avvicina con l’orecchio, per ascoltare, per sentire meglio. A fianco dell’aereo, delle scatole nere un po’ funeree contengono gli oggetti ritrovati. Gli oggetti non sono visibili, le scatole sono opache, intrasparenti. Nel libro, consegnato a tutti i visitatori all’entrata, sono stati fotografati, catalogati per tipo: borse, abiti, biancheria, scarpe, oggetti personali… A questi oggetti, e alla loro catalogazione, è dedicato il breve testo di Beppe Sebaste: “Le cose, testimonianze della vita delle persone. Gli oggetti sono tracce. Segni di una presenza. Impronte. Gli utensili, il valore d’uso delle cose. …. La memoria degli oggetti. Quella degli abiti, che raccontano la storia – la forma – dei corpi. La sopravvivenza delle cose. La spettralità delle cose. …”
L’aereo e gli oggetti ritrovati sono stati sottratti alla polvere dell’hangar, dove rischiavano di dissolversi nel nulla. E’ come se ora avessero avuto degna sepoltura, l’aereo e le cose. E con loro, anche i passeggeri. Per questo ho trovato molto naturale che l’inaugurazione si concludesse con una benedizione.

che cosa resta di Ustica?

Vestiti recuperati e scarpe, e la carcassa ricostruita di un aereo. Oggetti. Oggetti ri-trovati. Ri-pescati. Ecco quel che resta, delle 81 vittime del Dc9 dell’Itavia abbattuto sui cieli di Ustica 27 anni fa, durante un’azione militare (più di così non ci è consentito sapere, ancora una volta).
L’areo: ricostruito per le indagini in due ripescaggi 3500 metri sotto il mare, è stato riportato a Bologna, dal cui aeroporto era decollato. Il museo della memoria di Ustica che ora lo accoglie inaugurerà finalmente mercoledì 27 giugno, alle 17,30 – come ho anticipato qui. Fa strano, che un reperto di un’indagine giudiziaria, peraltro conclusa fino a un certo punto, possa finire in un museo. “Non potevamo pensare che, finito l’utilizzo giudiziario tutto fosse gettato via. Quell’aereo è l’ultimo luogo che i nostri cari hanno visto e toccato. Era ed è un simbolo della nostra battaglia per la verità”, chiarisce Daria Bonfietti, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Ustica, in un’intervista al quotidiano gratuito il Bologna, che ha seguito con grande attenzione questa vicenda.
L’aereo (quel che ne resta, ossia oltre 2000 frammenti ricomposti in forma di aereo) è stato così calato dal cielo nei ristrutturati stabili industriali ottocenteschi, un tempo deposito dell’azienda dei trasporti locali. Oltre all’aereo, e all’intervento di Boltanski, documenti d’archivio e testimonianze fotografiche. E oggetti ritrovati: durante i lavori di allestimento, Boltanski ha visitato i depositi in cui erano conservate le scatole di cartone che contenevano gli oggetti recuperati appartenuti ai passeggeri: Beppe Sebaste sul Venerdì di Repubblica ricorda che “l’artista, turbato, volle subito richiuderle: troppa vita, e troppo nuda; troppa sensibilità in quegli oggetti che occorreva, al contrario, sottrarre allo sguardo, non confondere con la profanazione della finzione e dell’arte”.

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Mi riservo di andare a vedere prima di continuare a raccontare cosa ne è stato di questi oggetti, e di raccontare la mia visione di questo museo della memoria. Il museo si trova nel parco Zucca, informazione utile per chi è di Bologna, come me. Alla Bolognina, storico quartiere operaio della città. All’inizio di via Saliceto, non avete più scuse per non venire. Io ci vado, è oltre un mese che aspetto.

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che cosa resta, foto di roberta bartoletti, 24 giugno 2007

dimenticare l’Iraq

Pensavo che a Londra avrei trovato molti libri sulla fotografia contemporanea. Forse avevo troppo poco tempo. Nella libreria della Serpentine ho trovato finalmente una rivista dedicata alla fotografia contemporanea inglese, che mi sono portata a casa. Sfogliandola ho visto un articolo dedicato a un videoartista che apprezzo molto, Steve McQueen, e al suo lavoro recente intitolato Queen and Country.
Si legge nella recensione che l’artista non ha concepito quest’opera come un memoriale dedicato ai soldati inglesi caduti in Iraq: si tratta di un’opera d’artista, che ha a che fare con la politica della rappresentazione, della memoria, e anche dell’oblio. Soprattutto le reazioni seguite all’apertura della mostra alla Central Library di Manchester (in febbraio) hanno rivelato il rimosso, come è stato scritto sulla stampa inglese e americana. L’ostruzionismo del ministero della Difesa inglese, ostile alla realizzazione dell’opera, ha rivelato l’esistenza di una memoria culturale ufficiale sulla guerra in Iraq che non poteva confrontarsi con la concretezza dei volti degli oltre 100 soldati inglesi caduti. McQueen ha contattato 115 famiglie, di queste 102 hanno risposto e 98 hanno collaborato con l’artista selezionando una immagine privata dei loro cari caduti in guerra (donne e uomini). Ognuna di queste immagini è stata trasformata in un francobollo: l’opera consiste in 98 fogli (inseriti in 49 pannelli estraibili, in sequenza per data di morte) dove ognuna di queste immagini è ripetuta 168 volte.

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Caporale Benjamin Hyde, morto il 24 giugno 2003 all’età di 23 anni

Si tratta di immagini private e intime (a colori), che oggettivano una memoria collettiva viva, scomoda per la memoria ufficiale dello Stato. In ogni francobollo, in alto a destra, il profilo della regina. Ancora una volta la carta e non il marmo o la pietra, un’immagine privata, intima e concreta che si contrappone a una rappresentazione astratta, collettiva e generalizzata: della guerra, delle sue conseguenze concrete.

Queen and Country, visibile alla Central Library di Manchester fino al 14 luglio, da fine mese si sposterà all’Imperial War Museum di Londra, che ha co-commissionato l’opera all’artista insieme al Manchester International Festival.

Siempre presentes (architetture della memoria)

Non lo nascondo. Temevo che l’Argentina contemporanea avesse deciso di andare avanti, e di cancellare un passato molto doloroso. A volte dimenticare serve a sopravvivere. Non nascondo che questo idea non mi piaceva, mi addolorava. Sono ben felice di trovare segnali che vanno in altra direzione.
Grazie alle testimonianze di un caro amico che sta lavorando a Buenos Aires (e che mi ha donato la foto qui sotto) posso immaginarmi Buenos Aires come città che ricorda, città della memoria. Lungo il fiume la città sta realizzando un “parco della memoria” che sarà completato l’anno prossimo e che ospita artisti internazionali, mentre tracce del ricordo della dittatura e dei suoi crimini sono sparsi ovunque. Particolarmente toccante mi pare la scelta della Facoltà di architettura di far vegliare sui tavolini e le chiaccherate del suo bar i volti e i nomi degli oltre cento studenti, laureati e docenti “detenuti-scomparsi e uccisi dal terrorismo di stato”. Così, tra i vivi, sempre presenti.

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Una nota: la bandiera è stata realizzata tra la fine del 2005 e l’inizio del 2006 (in vista del trentennale del golpe del 24 marzo 1976) a seguito di un concorso, a sostituzione di quella realizzata collettivamente e artigianalmente e che occupò quello stesso luogo per più di venti anni, leggo su un blog dedicato al progetto.

museo della memoria: bologna ricorda ustica

Inaugurerà il 27 giugno (2007) a Bologna, il museo della memoria – dell’abbattimento del Dc9 di Ustica e dei suoi passeggeri, avvenuto 27 anni fa. L’allestimento del museo, voluto dall’associazione dei familiari delle vittime, è stato affidato a un artista legato da sempre al tema della memoria, Christian Boltanski.

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Un museo per ricordare, non un memoriale per dimenticare, chiarisce l’artista nell’intervista di Brunella Torresin pubblicata ieri su La Repubblica: “Non credo ai memoriali. Occorre che questo museo diventi un luogo di ricerca, o tra 10 anni nessuno ricorderà più la tragedia del Dc9. Chi mai legge i nomi incisi sulle lapidi dei monumenti? I monumenti spesso sono fatti per dimenticare, e non per ricordare. Io ne ho fatti pochi. Me ne hanno chiesto uno per il Museé d’art et d’histoire du Judaisme, di Parigi, che sorge in un antico palazzo del Marais, un tempo dimora di famiglie ebree. Ho voluto ricordare i nomi di coloro che vi abitarono e furono deportati. ma non li ho voluti scolpire nel marmo, li ho voluti scrivere sulla carta. Quelle lapidi di carta vanno continuamente sostituite; e, ogni volta, è come rinnovare una preghiera. Così dovrebbe essere per il Museo della Memoria di Bologna: un monumento continuamente riallestito, un luogo dove si rinnovi continuamente una preghiera”.


Aggiornamento

Ecco il link diretto al sito del Museo, per chi desiderasse saperne di più sulle iniziative (una rassegna estiva di teatro e musica) e visitare il museo.


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