Leggo il Manifesto dal 1988, e sinceramente non voglio neanche immaginare un futuro senza il Manifesto.
Per i prossimi 40 anni. Solo in apparenza dalla parte del torto.
Bologna, 1991
blog di roberta bartoletti
Leggo il Manifesto dal 1988, e sinceramente non voglio neanche immaginare un futuro senza il Manifesto.
Per i prossimi 40 anni. Solo in apparenza dalla parte del torto.
Bologna, 1991
la parola “primo giorno di scuola” evoca in me ricordi un po’ tristini. era buio (ai miei tempi si cominciava in ottobre, mi pare) e non era una gran divertimento. ci andavo a piedi, girando intorno a un isolato. il cortile era tutto asfaltato, e bisognava aspettare l’estate per sentire il profumo dei tigli. avevamo il grembiulino, ma anche no. la disciplina non passava più per la stoffa, era più che altro un problema di protezione dallo sporco e dalle sbucciature.
mai avrei pensato che da adulta l’espressione “primo giorno di scuola” mi avrebbe depresso più di quanto mi accadeva da bambina. e non è certo colpa dei ricordi sfuocati dell’infanzia.
tra le cose che mi ha lasciato mia mamma, ci sono alcune ricette. non tante, ma molto preziose.
le più preziose non erano scritte, si andava a memoria, a occhio e naso, per ogni ingrediente quanto basta e nel momento giusto. si cuoceva finché non era pronto.
fortunatamente mi sono messa di pazienza, e me le sono fatte scrivere. visto che si continuava a non capirci niente, me le sono fatte dettare, e aggiungevo le mie note nei punti più oscuri, sollecitando chiarimenti e precisazioni. il risultato è una decina di ricette di famiglia abbastanza affidabili nella descrizione, ma che non riuscirei a fare se non avessi assistito tante volte alla loro preparazione, spesso come lavorio in sottofondo a cui non prestavo particolare attenzione cosciente. se non conoscessi gli odori e i sapori. se non li sapessi riconoscere, quanto basta e al momento giusto.
oggi ho preparato la salsa verde cotta per il bollito, e pur avendo seguito alla lettera le istruzioni scritte e riscritte, ho dovuto annusare la pentola per capire se tutto andava bene. se gli ingredienti erano nella quantità giusta, e passate due ore di cottura prescritte dovrò usare tutti i sensi per capire se anche stavolta è andata bene.
oggi è la vigilia di Natale, vi regalo una delle ricette più preziose: il budino di riso della nonna Medea, classe 1908. era il budino di Natale per eccellenza, perchè veramente molto ricco, molto buono e molto laborioso, e difficile da far venire ad arte. non mi ci sono ancora attentata, io. forse il prossimo Natale.
Budino di riso
Ingredienti
1 litro di latte
1 etto di riso
1 e 1/2 di zucchero
1 e 1/2 di zucchero (per il caramello dello stampo)
3 uova
scorza di limone grattugiato
Mettere il riso a bagno per mezzora. Bollire il latte con metà zucchero e (il) limone grattugiato. Schiacciare il riso, farlo bollire con il latte. Quando il riso è cotto farlo raffreddare. Sbattere le uova, aggiungerlo nel riso e caramellare lo stampo. Mettere a bagno maria. Farlo bollire per 3 ore. (Nota mia: 1 ora e 30 sul fornello e 1 ora e 30 in forno).
Buon Natale
Mia mamma faceva la sarta. Poi ha smesso. Non le piaceva neanche tanto. Però ha continuato a farmi dei vestiti, sempre con meno voglia, va detto. A un certo punto se andava bene mi faceva un orlo, come grande concessione. Faceva parte del suo percorso di emancipazione di ex sarta per forza, credo.
Tra le cose che mi ha lasciato ci sono migliaia di rocchetti di filo per cucire, di tutti i colori. Colori molto belli, che secondo me se vai a cercarli non ne trovi mica di così belli, in giro. Ormai è roba da antiquariato, i moderni direbbero modernariato. Per me, invece, sono proprio cose antiche.
Rocchetti di plastica, rocchetti di cartone. Filofort “Tre Cerchi ISC”, 1000 Yds: 914 Mt, N. 80 (giallo chiaro). Filofort 100 Yds: 91 Mt, Col. 532 (arancio becco d’oca). Col. 258 (rosa antico). Col. 478 (ruggine). N. 50 (verde), 300 Yds. Col. 436 (arancio carota). 559: azzurro grigio. Tra i miei preferiti: verde petrolio 377.
I cotoni da cucire sono tutti mescolati in tanti sacchetti, tutti ingarbugliati, intricati insieme a tante altre cose che con la sarta c’entrano, ma non sempre. Bottoni automatici, matasse di filo da ricamo, metri da sarta, fettuccine di vario tipo, grosgrain, modelli su carta trasparente e amenità varie. Un gran casino, insomma, che a districarlo ci si mette chissà quanto.
qui ci starà una foto, appena la scarico dalla macchina fotografica. eccola:
ovviamente non è una frase mia, né merito mio averla ricordata. l’ho sentita giovedì, durante la lettura al MAMbo di Paolo Nori che tra le tante cose serie e profonde che ha detto ha tirato fuori Wittgenstein. da giovedì sera questa frase mi risuona nella testa, vorrà pure dire qualcosa.
è una verità che non ha parole che possano spiegarla, raccontarla. prendetela così. quel che non può essere detto deve essere taciuto.
Sono un professore associato, e sono rimasta stupita leggendo l’ennesimo articolo del prof. Giavazzi, che in occasione del decreto urgente di riforma delle commissioni di concorso esultava perché ai professori associati veniva impedito di far parte delle commissioni di concorso (di fare i commissari), perchè tanto essendo ricattabili… cito che così sono precisa:
Un vecchio trucco: gli associati devono ancora essere giudicati (per diventare ordinari) quindi sono facilmente ricattabili. E infatti a premere per estendere l’ eleggibilità ai più giovani erano gli anziani non gli stessi associati.
Io sono un associato, sarò rintronata ma non mi pare sia una mossa contro i baroni, semmai contro gli associati. Che saranno anche ricattabili, ma non necessariamente ricattati. Associati che, una volta in commissione, sarebbero anche capaci di intendere e di volere, quindi di valutare e argomentare. O diamo per scontato che non è così, e invece di riformare l’università facciamo semplicmente fuori gli associati dai concorsi? Bel sistema, davvero. E Giavazzi, ordinario, esulta? Mah, mi sa che ci prende in giro anche stavolta. Nessun professore associato a me noto ha esultato, saremo tutti rintronati, forse. Non capiamo che lo fanno (chi, poi?) per il nostro bene.
Fuor di ironia: in pratica ci hanno detto, cari colleghi, che siamo degli schiavi: in quanto non liberi, incapaci di esprimere una volontà, inutile darci potere di voto.
Ringrazio il prof. Giavazzi per la sua solidarietà dall’alto.
PS: so che è un piccolo problema interno (sembra), ma leggendo un post di FC mi è rimontato il nervoso, perchè anche questo è un sintomo di quanto NON si stia cercando di migliorare l’università pubblica, e di quanto si stia cercando, complici i media, di demolire l’università. Come se non bastasse, ci prendono pure quotidianamente in giro. E costruiscono una realtà dell’Università sopra la testa di chi ci vive e ci lavora, insegnando studiando e ricercando ogni giorno. Ora basta.
oggi manifestazione anche a Bologna contro l’attacco alla scuola pubblica, dalle elementari all’università: studenti medi e universitari, chimici che reagiscono, veterinari che non amano i somari, studenti dams tagliati e cancellati, studenti di scienze politiche arrabbiati, di scienze della formazione indignati, ….
… studenti pacifici aggrediti, un poco mi sa anche menati: il corteo si stava dirigendo verso la sede di Confindustria, quando in via Castiglione si è trovato la strada sbarrata da una camionetta blu, della celere direi. Messa di traverso a bloccare la strada, proprio all’inizio del portico del liceo Galvani (chi è di Bologna mi intende). La polizia blocca il corteo, e a un certo punto inizia la carica, tutti corrono indietro, un attimo di paura e di confusione. Ma i ragazzi non se ne vanno, e finalmente il corteo procede, a dispetto del blocco della polizia.
“Noi la crisi non la paghiamo!”, uno degli slogan tra i tanti. Sarà per questo che si è tentato di fermarli?
immagine da uniurb in lotta, 28 ottobre 2008
Sono tornata da tre giornate passate rinchiusa nel bunker Bicocca. Rinchiusa perchè c’erano tante presentazioni da ascoltare, e non c’era molto tempo residuo. Ma rinchiusa soprattutto perchè lo spazio sembra pensato apposta per la reclusione. Non ci sono più gli operai Pirelli, a percorrere viali ed entrare negli edifici. Non c’è più la vita, dura e anche un po’ triste della grande fabbrica del nord, niente è rimasto di quel respiro, di quella cultura, dolorosa ma viva. Ci sono rimasti solo i muri, i corridoi bui, gli spazi oppressivi, e non si capisce nemmeno il perché. Gregotti non è proprio il mio architetto preferito. Mah. E’ riuscito a conservare il peggio di quel mondo, rimasto come vuoto scheletro che ora docenti e studenti si trovano ad abitare, ad animare come possono.
Questa la prima memoria milanese.
La seconda: grazie anche al suggerimento di Mario, ho scoperto che a Milano ci sono ancora ristoranti vecchio stile, dove ti portano porzioni incredibilmente abbondanti. Così poco in sintonia con l’immagine anoressica di una città sacrificata alla moda, al suo lato meno nobile. Una Milano da gustare. Capita così che il ristorante l’Infinito mi ricordi il bolognese Bertino, e il cerchio si chiude.
che strano post.
faccio questo mestiere con la convinzione che sia qualcosa di utile, non un orpello, un giochetto, un surplus. la cultura, la capacità di pensiero, possibilmente critico, la conoscenza del mondo, di sé e degli altri. tutta robetta, per questo governo. sono indignata, mi scuso per questi post che qualcuno può trovare noiosi. ma sono veramente infuriata, offesa, amareggiata.
segnalo una petizione, su iniziativa dell’università di Roma, contro il recente decreto che fa un ulteriore passo in avanti nella distruzione progressiva dell’università italiana: http://cga.di.uniroma1.it/
firmatela, al minimo. fate attenzione a quel che sta succedendo, dopo averla firmata, che firmare non basta.
Non scrivo da un po’. Vuoi per l’impegno della festa dell’Unità, poi per un viaggio per un convegno a Budapest, il 38esimo World Congress dell’International Institute of Sociology, dove ho presentato una relazione su Brands and consumption in the construction of individual and collective memory in contemporary societies, in una sessione sul tema (Re-) Asserting Collective Memory in a Global Age.
Sono partita un po’ stanca, così quando vedevo qualcosa da fotografare mi accorgevo di aver lasciato la macchina a casa, ecc. Posso solo raccontare la foto che avrei messo qui sotto, a illustrazione del post: il congresso era alla Central European University (CEU) di Budapest, e appena oltrepassata la porta centrale, nel primo ingresso ci si trovava di fronte al ritratto fotografico di un signore sorridente, il principale finanziatore e fondatore dell’Università, nata nel 1991 “with the explicit aim of helping the process of transition from dictatorship to democracy in the countries of Central and Eastern Europe, and Central Asia”. Un certo signor Soros. George. Già, proprio lui.
In mancanza, immagine del ponte delle Catene con Parlamento sullo sfondo. Il fiume è il Danubio.
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