Archive for the 'donne' Category

grandi madri operaie

Non ci sono parole per commentare il lavoro di Brian Griffin, sono troppo potenti le immagini.

Eccole (alcune).

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Woman Chainmaker, Cradley Heath, UK 2010.

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The Black Kingdom, 2013

Edith Griffin. Operaia di fonderia

Non solo grandi madri:

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La mostra è attualmente a Bologna, atterrata da Marte.

 

madri archetipiche

In attesa del libro, venerdì 18 maggio anteprima sulle Grandi Madri nel fumetto all’Accademia di Belle Arti di Bologna, conversazione di Daniele Barbieri con l’autrice che sono io, conduce Enrico Fornaroli.

il velo degli altri

Torno su un tema a me caro, la costruzione culturale del femminile, a partire da un caso montato intorno a un oggetto di consumo.
L’estate scorsa, in un comune alla periferia di Parigi, a una giovane donna musulmana è stato vietato l’accesso in piscina perchè voleva fare il bagno in burkini, il costume da bagno islamico. La ragazza aveva acquistato il burkini a Dubai perchè pensava le consentisse di fare il bagno senza doversi scoprire troppo, nel rispetto dei precetti islamici. Per il gestore della piscina si tratterebbe di un “problema di igiene” (Mary Douglas potrebbe dirci qualcosa al riguardo, e ce l’ha detto), mentre per la ragazza si tratta di una forma di discriminazione, contro la quale pare intenzionata a lottare.
In Olanda, dove un anno fa è accaduto un caso simile a quello francese, il governo ha deciso di non vietare questi costumi integrali, mentre in Svezia alcuni stabilimenti li propongono in affitto, riporta Repubblica.

Il clamore intorno al burkini risuona di altre controversie: in Francia un gruppo di parlamentari si era da poco schierato contro l’uso del burka nel territorio nazionale, ed è di pochi giorni fa il referendum svizzero sul divieto di costruire minareti. In generale notiamo quindi vari segnali di disagio verso i simboli islamici che abitano l’Occidente.
Ma torniamo al burkini: marchio inventato circa due anni fa, si tratta di un costume in tre pezzi che copre capo e corpo, e dal nome possiamo pensare al sostituto di un bikini per donne che portano l’abito tradizionale islamico, e che desiderano un abbigliamento conforme anche per la spiaggia e il bagno. L’unione delle parole burka e bikini non pare particolarmente felice, soprattutto in Occidente dove la parola burka evoca il peggio possibile sull’immagine della donna nel mondo islamico. Giuliana Sgrena commentando un caso di controversia sul burkini a Verona, ricorda le classiche domande che ci si può fare al riguardo.
Se ci concentriamo sull’oggetto, notiamo un esempio di creatività del mercato, che ha inventato il costume da bagno islamico che prima non c’era. L’alternativa era fare il bagno vestite. Ricordo i racconti di mia madre, che faceva il bagno in castigatissimo costume intero con la sua cugina nel mare della Calabria degli anni ’50. Le donne locali, che entravano in mare vestite, le guardavano e le pensavano in molto malo modo.
Da questa prospettiva, molto ristretta, meglio il burkini del burka, se permette di muoversi meglio in acqua. Il burkini consente di segnare una differenza tra il vestito da città e il vestito da mare, sempre nei confini della tradizione islamica (o presunta tale, visto che il Corano non si occupa precisamente di vestiti). E’ un’apertura alla varietà e alla moda (il burkini si presenta in tante versioni colorate o no, con tratti fashion) nel rispetto della tradizione islamica (bel paradosso). Il burkini risponde quindi ad esigenze di una nicchia (non tanto piccola) di consumatori. E’ una ulteriore conquista del mercato.

Se poi ci vogliamo interrogare sulla costruzione del femminile e del suo corpo, sarebbe interessante una bella analisi comparata del burka e del bikini, che sempre più si vede non nelle spiagge ma in televisione.

“non mi fotografate a braccia conserte, per favore…

… è la posa di quelli che comandano, “cuj ca cumandu”.

Ernestina, staffetta partigiana della 42esima Brigata garibaldina, Val di Susa, 25 aprile 2009.
(Articolo di Andrea De Benedetti, Il manifesto, 26 aprile 2009, pag. 3, oggi solo in edicola per chi vuole vedere la fotografia della staffetta Ernestina, e leggere l’articolo).

25 aprile, Festa della liberazione dal nazifascismo (non dai puffi cattivi), festa semmai di Giustizia_e_Libertà, inseparabili.

Pregnant Barbies

La critica maggiore che viene mossa alla bambola della Mattel, mi pare, è quella di essere irrealisticamente bella e fashionista. Fuori dal mondo, dalle sue banali e faticose quotidianità.
Mi ha sorpreso quindi tanto scoprire che tra i fallimenti di mercato della Mattel va annoverata una Barbie incinta, con tanto di pancione magnetico con infante incorporato. Il modello è del 2002, in realtà la bambola incinta non è Barbie ma la sua storica amica Madge, che sta aspettando il suo secondo figlio e ha pure un marito.

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L’articolo è stato ritirato dagli scaffali dei supermercati negli Usa a causa delle reazioni innorridite dei consumatori, preoccupati di eventuali gravidanze delle loro figlie pre-adolescenti, mentre la Mattel pensava che il prodotto potesse offrire ai bambini uno spunto di riflessione e conversazione sulla nascita dei loro fratellini.
Così come ho trovato diversi commenti innoriditi degli utenti di vari social network e blog dove sono state pubblicate immagini di Barbie incinte, nella variante autentica o in vari fake.

Due riflessioni.
1. Ma se il problema della Barbie è la sua inadeguatezza al mondo reale, perchè fa tanto scandalo un’amica incinta? Sottolineo che molti commenti recitano testualmente “che schifo”: fa schifo la gravidanza? la pancia della Barbie? il feto cresciuto? Mi inquieto.
2. Se la Barbie incinta (Madge, in realtà) fa tanto schifo, perchè su Amazon la vendono a un prezzo compreso tra i 350 e i 750 dollari come prodotto raro, ai collezionisti di Barbie? Così come tra i tanti commenti schifati alle Barbie incinte, autentiche o fake, si intervallano le richieste di acquisto dei collezionisti di Barbie, incuranti – da fan – delle controversie generate dal prodotto.

Segnalo il video di Mike Mozart dedicato alla Barbie incinta, della serie giocattoli fallimentari.

Velo e violenza/ sul femminile

Il post di ieri, che avvicinava Heidi e Barbie attraverso un comune riferimento al velo islamico, anticipa un tema oggi in agenda, della politica e forse dei media. Nessuna campagna tra blogger, mi sembra sia stata prevista. Come per i monaci intendo. A me dispiace molto. Invito le mie amiche blogger a rifletterci, invece*.
Oggi è una giornata nazionale di mobilitazione contro la violenza sulle donne, che assume volti molto differenti: dalle botte e dall’omicidio, dentro o fuori la famiglia, alla violenza sessuale fino alle forme più sottili e profonde di violenza simbolica. L’idea è che tutte queste forme di violenza rivolte specificamente al femminile, a quello che il femminile rappresenta nel mondo, siano strettamente connesse, si sostengano a vicenda. Ognuna di esse ci dovrebbe far rabbrividire. Non occorre arrivare all’annientamento della vita, seppur questo sia l’esito più terribile, se non altro per la sua irreversibilità.

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Sottolineo oggi il tema della violenza contro il femminile attraverso un film di una regista libanese di cui ho letto stamattina su Alias (articolo di Silvana Silvestri in occasione degli Incontri di cinema e donne di Firenze). Il film è Dunia, girato in Egitto e uscito nelle sale europee nel 2006 (in Francia sicuramente), la regista è Jocelyn Saab, libanese che vive tra Parigi e Beirut. Il film in Egitto è stato visibile nelle sale una sola settimana, poi è stato ritirato (malgrado le code ai botteghini) e la regista minacciata e condannata a morte dalle donne, in quanto il film è contro la mutilazione femminile (l’escissione, che riguarderebbe il 97% delle donne egiziane) che è una tradizione tramandata dalle donne. Donne contro donne, come forma suprema della violenza sul femminile.
Il film, che ha per protagonista una giovane attrice egiziana, star di film commerciali, racconta la storia di una ragazza che attraverso lo studio della danza si riappropria del proprio corpo, attraverso la danza e l’amore. La regista racconta su Alias che la stessa attrice ha vissuto profondi cambiamenti durante le riprese ma, appena terminate, è comparsa in televisione velata a rinnegare il film e la regista, a dire che il cinema deve essere velato. La regista libanese conclude la sua intervista con un giudizio molto lapidario sul velo: “più la donna è velata, meno libertà c’è in giro per il mondo”. Ovviamente, aggiungo, non è il velo in sè, ma il velo trasformato, che da una mera tradizione vestimentiaria diventa un vero e proprio strumento simbolico del controllo del corpo e del sentire femminile.

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Il film è disponibile in dvd (in arabo con sottotitoli in francese, inglese e tedesco, per 22 euro), e un trailer si trova su YouTube, e dopo il ritiro dalle sale egiziane è circolato in Internet dove è stato visto da 4 milioni di persone. Questo post vuole anche essere un piccolo promo commerciale. Perchè registe come la Saab possano continuare a lavorare.

*PS: mi aspetto un post almeno da laura, chiara e valentina (e forse giulia, se è veramente tornata…). Solo per restare entro il mio blogroll al femminile. E’ un obiettivo minimo, insomma.

cose da turchi (non solo)

E’ di ieri la notizia su Repubblica che una casa editrice turca ha adattato alla cultura islamica la cristianissima storia di Heidi, la piccola orfana che oltre ad essere un mito nella sua natia svizzera è un mito globale, con risonanza su tutti i media di tutto il mondo.

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l’Heidi di Miyazaki

La casa editrice turca Karanfil ha infatti cambiato le illustrazioni che accompagnano il romanzo della scrittice ottocentesca, Johanna Spyri, allungando l’abitino di Heidi per nascondere le mutande (che in particolare nella storia animata dal grande Miyazaki sono spesso visibili), e ha “imposto” il velo alla nonna di Clara e alla signorina Rottermeier. Come se la rigidità morale e bigotta di questa seconda signorina non fosse stata sufficiente nella sua versione originale.
La casa editrice turca ha quindi indigenizzato il prodotto culturale Heidi (direbbe forse Appadurai) per renderlo più vicino alla quotidianità dei bambini turchi. Peccato che la Turchia non sia unanimemente considerata un paese confessionale (islamico), anzi, per alcune significative voci (di cui dà conto la stessa stampa turca) dovrebbe essere un paese laico. La risonanza interna della notizia riguarda dunque una diversa visione della cultura che sarebbe lo sfondo ordinario delle bambine e dei bambini turchi.

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a sinistra: illustrazione originale; a destra: illustrazione del libro turco, commentato dal quotidiano turco Aksam che si preoccupa di “cosa debba sopportare l’aristocratica signora Sesemann”, coperta da velo e abito islamico (pubblicate da die Welt.

La vicenda non è nuova nè particolamente strabiliante. Per chi si occupa di oggetti di consumo, e tra questi di giocattoli, gli esempi negli anni recenti si sprecano. Ne cito solo uno: Fulla, che possiamo considerare la variante islamica della Barbie occidentale. Fulla è un prodotto di origine siriana, e si presenta con caratteri contraddittori ma assai intriganti: rispettosa dei genitori e coperta dalla testa ai piedi da un manto nero, ama però parecchio lo shopping. Ho portato la mia Fulla a lezione la settimana scorsa, per mostrarla ai miei studenti (che fra l’altro mi hanno insinuato il dubbio che sia tarocca: ci sono già le contraffazioni!): l’esercizio prevedeva un’analisi accurata del prodotto, fin nelle sue caratteristiche più intime. Fulla (a differenza di Barbie), non può essere interamente spogliata, perchè sotto il vestito coperto a sua volta dal tradizionale manto nero (l’abaya) ha disegnata una mutanda. Incorporata.

mia_fulla.jpg la mia Fulla

una rete al femminile?

Mentre nella blogosfera si parla di cicli mestruali (io rimando a quanto avevo già scritto qui), vorrei sottolineare una notizia che credo rilevante per chi ha le mestruazioni (le ha avute o le avrà), ma anche per gli altri. Fem-camp docet.
Leggo stamani sul giornale di ieri (i blog non servono a far cronaca, si sa, il mio sicuramente no) che dall’esperienza dell’Associazione Orlando di Bologna nasce dopo un paio di anni di lavoro un motore di ricerca sensibile al femminile: si chiama la Cercatrice di rete, che non ha certo l’ambizione di sostituirsi a Google, ma intende integrarlo offrendo un filtro che osserva le informazioni in rete da un punto di vista femminile, o è attento alle tematiche del femminile (dalla violenza sulle donne come forma specifica della violenza all’empowerment delle donne attraverso le tecnologie, o tutto il resto che vi viene in mente). Ne parlano Marzia Vaccari e Federica Fabbiani nell’articolo di Francesca Martino. Marzia dice: “i consigli che offre la cercatrice sono tratti da Linguaggio-Donna, un repertorio linguistico messo a punto nel 1991 dai centri di documentazione delle donne, quando il problema era diventare visibili nei cataloghi delle biblioteche e degli archivi, nei quali cercare tematiche femminili per soggetto è un’impresa impossibile”.
Che dire, bisognerà provarlo (è un consiglio), e magari confrontarsi su quello che produce questo modo di cercare al femminile.

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Annette Messager, Secret, 2006

prima prova: se la cercatrice cerca con la chiave “mestruazioni” il risultato di oggi è questo qui. Il primo risultato della ricerca è un articolo del blog Mondodonna sulla pillola che elimina il ciclo, che – coincidenza – coincide con il mio post sul ciclo di cui parlavo all’inizio. Beh, come prima prova son soddisfatta.

la foto rubata

per me la fotografia è strettamente legata alla memoria. non che questa connessione me la sia inventata io, ovvio. intendo dire che il mio fotografare, e la mia passione per la fotografia, è legato alla potenza della fotografia in relazione alla memoria, in particolare al ricordare.

La signora Dina Zaghi, classe 1930, qualche giorno fa vede inaspettatamente la sua foto in un manifesto politico di un importante partito nazionale. Telefona e precisa che quella foto è del 1948, non del 1954 come dichiarato dall’articolo che accompagna la riproduzione del manifesto, descritto come uno dei più significati del dopoguerra italiano. Lo sa bene, lei, che in quella immagine compare, mentre aspetta l’autobus di ritorno da una manifestazione a Milano. Una foto rubata, di una giovane donna del 1948 con il tricolore in mano. Appena la trovo, la pubblico.

cantare per ricordare/il cantourlato delle mondine

Ieri sera alla festa nazionale dell’Unità, che si tiene quest’anno a Bologna, hanno cantato le mondine di Bentivoglio. Il gruppo di donne, oggi tra i sessanta e gli ottanta anni, così a occhio, rappresenta l’ultima generazione di mondine che hanno lavorato nelle risaie della campagna bolognese, la bassa a nord della città. Trent’anni fa circa, raccontava la mondina Renata all’inizio del concerto, una maestra di scuola elementare di Bentivoglio le invitò perchè raccontassero la loro storia ai bambini, e così comincio la loro avventura, che ha avuto una breve pausa di arresto, ma recentemente si è riattivata. Hanno cantato per due ore – con un’energia da non credere – le loro canzoni di lotta, in parte d’autore e in parte inventate dalle stesse mondine, che nelle risaie non potevano parlare (dovevano lavorare) e allora cantavano, la loro protesta ma anche la loro irriverente giovinezza.
L’occasione non era unica, perchè le mondine di Bentivoglio canteranno in giro anche nei prossimi giorni, e spero che continuino anche l’anno prossimo il loro corso, perchè la loro storia e la loro forza continui a essere cantata. Chi volesse affiancarsi a loro può contattarle all’indirizzo che ho trovato sul cd che raccoglie alcuni loro canti: mondinedibentivoglio@email.it

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le mondine di Bentivoglio

ps: gli antropologi che studiano il consumo ci dicono che trasferiamo significati dalle cose alle persone, a volte gli oggetti servono ad appropriarsi di qualità che culturalmente attribuiamo loro. Immaginate quindi perchè sono tanto fiera di possedere la bicicletta di una mondina di Molinella (e immensamente grata a Gigi che me l’ha regalata), pur essendo sicura di non meritarmela.

Auto-archivio (femminile)

Sarà merito (o colpa) del fem-camp, o dei blogroll rosa, ma mi sono accorta che sarebbe sensato inserire una nuova categoria nella mia lista, una parola non esplicitata ma di fatto molto presente. Che accomuna post che avevo associato alla parola corpo e alla parola comunicazione. Nuovo tag (retroattivo): donne.


Annette Messager, Mes Voeux

blogging for women. l’altro lato della pertinenza?

Sono andata al FemCamp che si è tenuto ieri a Bologna con un pregiudizio, o meglio un sospetto: che si potesse trovare qualche specificità nei blog delle donne, nei blogger/donna. Sono andata per sentire se quest’idea è condivisa, se ha un qualche fondamento, o se è un mio delirio. Anche per imparare qualche trucco tecnico per migliorare il blog, e fare invidia ai colleghi maschi assenti :-).
Per questo mi sono fidata doppiamente del consiglio di Feba e sono andata a sentire la presentazione di Andrea Beggi, dal titolo promettente “Blogging for Ladies: (quasi) tutto quello che una donna avrebbe voluto sapere sui blog e non ha mai pensato di chiedere. Come utilizzare meglio dei maschiacci tutte quelle robe dai nomi strani”. (Aggiornamento: la presentazione di Andrea è stata poi postata qui).
Andrea è partito da un dato oggettivo, che le donne sono marginali nelle classifiche dei blogger, e da un’ipotesi, che questo possa dipendere da una loro (“nostra”) relativa mancanza di strategia e tecnica nel rendersi “visibili”. Da questa doppia considerazione ci ha garbatamente proposto una serie di consigli molto utili, sicuramente.

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sempre da flickr

e idem

Primo dubbio (che ho condiviso durante la relazione con miei vicini di sedia nonché colleghi, Fabio e Giulia): non sono consigli che valgono specificamente per le donne, sono consigli universalmente sensati e utili ai blogger (tra cui: evitate i refusi, rileggete prima di pubblicare – non dico a chi ho pensato, dico solo che è un acronimo di tre lettere, e sta nel mio blogroll e purtroppo è maschio). Dov’è la specificità del blogger/donna, solo in una relativamente maggiore inesperienza?
Secondo dubbio: posto che le donne siano effettivamente marginali nella blogosfera per una loro carenza nel rendersi visibili – partecipano poco dove occorre, non sfruttano al meglio tutti gli strumenti che il web 2.0 mette a disposizione ecc. -, chi ci dice che la visibilità, l’esposizione a tutti i costi siano L’Obiettivo del blogger, e non invece uno dei possibili obiettivi, sicuramente quello dominante, ma non l’unico?
Il mio sospetto è che la blogosfera come ambiente (in autonomia dagli stessi singoli blogger che la animano, maschi o femmine che siano) sia dominata da una logica quantitativa (che è poi la logica della comunicazione) – quantità di contatti, quantità di presenze, quantità di informazioni … – e non qualitativa; è in altre parole informata da una logica espansiva, o estensiva, che mi pare abbastanza omologa a quella del mercato. Da esperti come Andrea, o altri che non conosco ma che vorrei conoscere, posso allora sperare che arrivino consigli per migliorare strategie e tecniche per un blogging meno interessato a rendersi visibile a chiunque a tutti i costi, magari più interessato a trovare e selezionare fonti di informazione di qualità, strumenti di gestione di archivi di dati e immagini pertinenti al progetto su cui spesso un blog nasce, a trovare contatti pertinenti con la propria missione. Chissà se mi sono spiegata. Ringrazio Andrea, che a seguito di questa sollecitazione mi ha dato consigli su come bere dall’idrante senza affogare…

PS: Direi che questo è il secondo dei due post promessi sulle conversazioni dal basso, che ruotano intorno all’idea di pertinenza, di cui ho parlato qui e qui. La logica dominante della blogosfera, della visibilità e dell’esposizione estensiva alla comunicazione, mi pare cozzare con le pretese qualitative del concetto di pertinenza. (Per chi mi conosce: si capisce, spero, cosa c’entra tutto ciò con la memoria).


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