A Parigi è in corso una non tanto bella mostra dal bellissimo titolo e su un affascinante tema: Terre natale. Ailleurs commence ici (Terra natale. L’altrove comincia qui). A cura del filosofo Paul Virilio e del fotografo Raymond Depardon.
Sono andata perché il decennale lavoro fotografico di Depardon sulla cultura rurale francese, sui paysans, mi affascina molto, e ha creato aspettative che sono state abbondantemente deluse.
La precedente mostra di Virilio, sempre alla Fondazione Cartier nel 2003, era stata un’esperienza significativa, nulla a che fare con questa seconda.
Terre natale si articola su tre lavori, due di Depardon –Donner la parole e Tour du monde en 14 jours – e uno di Virilio insieme a un collettivo di artisti. Parlo solo di Depardon, che è quello che mi ha irritato di più, sperando di ricordare le parole adatte a descrivere il mio disappunto. In Donner la parole Depardon ha costruito una serie di video dedicati a lingue in via di scomparsa, a causa della progressiva scomparsa dei popoli in cui sono incarnate: lingua quecha e mapuche degli indios del contintente sudamericano, ma anche lo stesso patois del sud della Francia. L’idea mi pareva fantastica – il tema sarebbe il radicamento nella lingua -, ma ne risulta uno sguardo osceno su mondi in via di scomparsa. Resta il valore delle parole (comprensibili dai sottotitoli) degli indios, dei contadini, degli isolani, che ci fanno capire come queste lingue ancestrali radicate alla terra non siano solo un patrimonio folclorico, ma un patrimonio di significati, sono le parole di un senso della vita che non si può esprimere altrimenti. E che scomparirà con i loro ultimi parlanti.
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lingue ancestrali
Published febbraio 14, 2009 indiani , memoria collettiva , Uncategorized 2 CommentsTag:Depardon
se muoio stanotte
Published ottobre 25, 2007 Bologna , indiani , letteratura , Resistenza Leave a Commentoggi wu ming 1 e wu ming 4 sono venuti da bologna a urbino per parlare del loro lavoro di narrazione collettiva, e in particolare di Manituana.
Sono state tre ore molto positive, per me, e in segno di ringraziamento segnalo la storia di Ettore, tra i protagonisti del loro penultimo romanzo – “54” – partigiano che ha partecipato alla mitica battaglia di Porta Lame a Bologna. Eccone una traccia sonora qui.
Della serie: parlare degli antenati (ascoltarli) è un modo per riflettere profondamente sul presente (e sulla sua complessità, ci ricordavano i wu ming).
memorie del suolo: terra e corpo
Published luglio 14, 2007 corpo , de Certeau , indiani , terra Leave a CommentAltri indiani, altre memorie. Tra gli articoli di de Certeau raccolti come scritti politici, uno ha attirato la mia attenzione. Capitolo ottavo: la lunga marcia indiana. Pubblicato nel 1976 su Le Monde Diplomatique, mostra la fiducia di de Certeau nei confronti del genere umano, e conferma secondo me la grandezza straordinaria dell’autore.
L’articolo parla della Resistenza degli indiani dell’America “latina”, del movimento che negli anni Settanta rivendica una specificità e un’autonomia (dal dominio del capitale e dell’Occidente, …) fondate su un legame con la terra, con il suolo, e non tanto su una cultura. Quella stessa terra che per prima è stata espropriata e sottratta, e che negli anni Settanta, ci svela de Certeau, è il fondamento di una memoria collettiva e di un’identità, e non ultimo: di un’azione politica. Il suolo custodisce un segreto indiano, inattingibile nonostante tutte le alterazioni subite (terra merce): la terra è una tavola della legge collettiva, della specificità di un popolo che sfugge sia “all’appropriazione violenta” (del capitale) che al “recupero dotto” (della stessa etnologia).
Cito un pezzo lungo, ma molto significativo (p. 129):
“Sapete” diceva Russel Means “l’indiano ha memoria lunga”. Non dimentica gli eroi uccisi e la sua terra occupata dallo “straniero”. Nei loro villaggi, gli indiani conservano acuta consapevolezza della loro colonizzazione lunga quattro secoli e mezzo (Herbert 1972). Dominati ma non sottomessi, si ricordano anche di quello che gli occidentali hanno “dimenticato”, una continua serie di sollevazioni e risvegli che non hanno quasi lasciato tracce scritte nella storiografia degli occupanti. Quanto se non più dei racconti trasmessi, questa storia di resistenze costellate di repressioni crudeli è segnata sul corpo indiano. Questa scrittura di un’identità che è stata conosciuta nel dolore costituisce l’equivalente del marchio impresso dalle torture iniziatiche sui corpi dei giovani. Anche sotto questa forma, il “corpo è una memoria”. Porta scritta la legge dell’uguaglianza e della non-sottomissione che regge non soltanto il rapporto tra sé e gruppo, ma anche i rapporti tra sé e occupanti. Presso le etnie indiane (circa 200) che abitano l’America “latina”, questo corpo torturato e quest’altro corpo che è la terra alterata costituiscono un inizio da cui rinasce, una volta di più, la volontà di costruire autonomamente un’associazione politica.
Vorrei tanto sapere, ho il terrore di sapere, perchè non ho la stessa fiducia del grande de Certeau, cosa ne è oggi di questi movimenti.
Sento molto vicini gli indiani dell’America “latina” (altra classificazione dei dominatori), da che ho memoria, grazie in particolare a due libri, entrambi sugli indios del Peru, che segnalo: Nathan Wachtel, La visione dei vinti, libro letto, scomparso e credo quasi introvabile (come testimonia la caccia al libro di Fahrenheit) e Rulli di tamburo per Rancas, di Manuel Scorza, morto in un misterioso incidente aereo nel 1983.
memorie indiane/sono un Lakota…
Published luglio 5, 2007 autobiografia , indiani , letteratura , oblio 4 CommentsNon so dire a quando risale il mio interesse per gli indiani. I nativi del continente americano, del nord. Forse la loro è la storia di una scomparsa troppo dolorosa, per essere affrontata così, con leggerezza. Va presa con cautela, a piccoli passi.
Per capirlo basta leggere l’autobiografia di Alce nero, raccolta con rispetto da John G. Neihardt negli anni Trenta. Quando lo scrittore andò alla riserva di Pine Ridge per conoscere Alce Nero, il vecchio Sioux, quasi cieco, lo stava aspettando, e gli diede appuntamento per la primaversa successiva: “c’è tanto che dovrei insegnarti. Ciò che io so, mi è stato dato per gli uomini, ed è vero ed è bello. Presto sarò sotto l’erba e tutto ciò andrà perduto. Sei stato inviato per salvarlo, e devi ritornare perchè io te lo possa insegnare”. Così John/Arcobaleno Fiammeggiante torna e raccoglie dalla voce di Alce Nero la storia del grande sogno di un popolo e della sua tragica conclusione, con il massacro di Wounded Knee (Sud Dakota) nel 1890. “Sono un Lakota* della banda degli Ogdala. Il nome di mio padre era Alce nero, e anche suo padre portava questo nome, e il padre di suo padre, perciò sono il quarto dello stesso nome. …”.
Alce nero davanti ai Sei Avi nella Tenda dell’Arcobaleno Fiammeggiante (illustrazione di Orso in Piedi)
* con il termine Lakota si distinguono le bande occidentalii degli indiani Dakota, comunemente noti come Sioux, nota Neihardt.
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