Archive for the 'oblio' Category

memorie da demolire

Sembra che alla lista degli edifici destinati a scomparire si aggiunga la casa degli artisti di Mosca, che attualmente ospita la collezione del Novecento della galleria Tretjakov. Ne scrive Astrit Dakli qui.
La storia non è certo nuova, l’edificio non è certo tra i più belli e tanti altri hanno conosciuto a Mosca analogo destino – ma si distrugge per far posto al nuovo, di solito. Qui il nuovo ancora pare non esistere, se non nella forma generica di un interesse economico.
Ricordo l’aura un po’ polverosa da vestigia sovietica dell’atrio della casa degli artisti, cancellata ben presto dalla meraviglia per le opere che contiene. Che esistono davvero, sono lì, e rischiano uno sfratto prima di aver trovato nuovo asilo. mah.
è il mercato, bellezza.


vedute impossibili: San Salvatore, Cremlino e Moscova attraverso le finestre dell’hotel Russja (già demolito)

gli antenati di Zapatero

Mentre in Italia alcuni nipoti si dimenticano delle gesta dei loro antenati, Zapatero onora il ricordo di suo nonno, e delle decine, migliaia di repubblicani che hanno lottato nella guerra civile spagnola, e che sono stati perseguitati nei 36 anni della dittatura di Franco.

Del mio unico viaggio nella capitale spagnola, Madrid, il principale ricordo che mi sono portata a casa è quello di aver visitato un paese che sembrava rimasto ibernato all’epoca della guerra contro l’invasione Napoleonica. All’epoca, per intenderci, rappresentata dal celebre quadro di Goya, conservato al Prado. Vedere quel quadro, nel principale museo di Madrid, e uscire nella città, nelle sue strade, nelle sue piazze, era un’esperienza senza soluzione di continuità (non fosse stato per i negozi, gli aperitivi e le strade commerciali). La città tutta unita ricordava la fiera resistenza contro Napoleone, nei monumenti e nei nomi della città. Non un unico riferimento alla guerra civile, la guerra fratricida, la guerra del Novecento che ha portato la Spagna al centro del mondo, che ha portato in Spagna non so quanti volontari, dall’Italia, dalla Francia, fin dal nuovo continente. Anche per questo motivo, lo confesso, Madrid non mi è piaciuta per niente.

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E’ quindi (anche per me) una vera notizia l’approvazione da parte del parlamento spagnolo di una legge che originariamente era chiamata Ley de la Memoria Historica, e che nel travagliato percorso verso l’approvazione si è trasformata nella “Legge attraverso la quale si riconoscono e si ampliano diritti e si stabiliscono misure in favore di coloro che soffrirono persecuzione o violenza durante la guerra civile e la dittatura”. Non è una legge straordinaria, lamentano le associazioni che da sempre di queste vittime e di quei crimini si sono occupati, cercando invano giustizia. Ma è sempre meglio del silenzio che ha fatto parlare, per la Spagna, di un pacto del silencio, e di un pacto del olvido. Oggi, quindi, non è più possibile semplicemente dimenticare.
Rimando al bell’articolo di Maurizio Matteuzzi, che ricorda tra gli altri le parole della scrittrice Almudena Grandes:

“Uno dei più grandi crimini del franchismo è aver provocato uno strappo brutale nella memoria, aver fatto sì che noi nipoti non sapessimo nulla o non potessimo più credere alla vita dei nostri nonni”.

Viva la Spagna, viva Zapatero.

memorie confuse/2

Sono abbastanza convinta che il nostro tempo abbia qualche serio problema di memoria, di smemoratezza, ma non solo, anche di grande confusione su quello che ha senso ricordare.
Sono anche convinta che i “problemi di memoria” non siano mai casuali: sono invece sempre rivelatori, e dovrebbero sempre far pensare, non dovrebbero mai essere sottovalutati.
Mentre si ragionava sulla scelta (per me criticabilissima) del 25 aprile prossimo per il V2-Day, è uscito un articolo di Alessandro Portelli sul Manifesto, che spera venga presto pubblicato sul suo blog, che mi conferma nelle mie 2 suddette convinzioni.

I giornali ne hanno parlato, non so quanto, ma questo è il fatto: il neonato Partito Democratico ha “dimenticato” di ricordare la Resistenza e l’antifascismo tra i suoi riferimenti fondanti. Nessuno dei due compare quindi nella carta dei valori del PD (sarei curiosa di sapere cosa c’è, allora, ma ho paura di chiedere), né nello statuto o nel codice etico. Interrogati sulla mancanza, hanno risposto appunto che è stata una dimenticanza. Distrazione? Confusione? Rimozione? mah. Interrogato, un senatore spiega che il PD si fonda sul “presupposto che la storia del ‘900 è finita, e con lei le sue ideologie: il fascismo oltreché il comunismo” perciò “l’antifascismo in quanto ideologia politica è anacronistica come il fascismo”. Mi verrebbe da chiedergli: caro signore, ma lei dove ha studiato? e, soprattutto, ma dove vive?

Ognuno ha il suo modo di costruire il passato per aprirsi al futuro. Come scrive Portelli, “nell’Unione Sovietica cancellavano i gerarchi in disgrazia dalle foto ufficiali. Noi invece celebriamo compunti la Giornata della Memoria”. Ma a che futuro ci stiamo così preparando?

PS: Dopo la nota di Veltroni, la Resistenza compare una volta nel Manifesto dei valori del PD, così: “La Costituzione repubblicana, nata dalla Resistenza antifascista, è il documento fondamentale dal quale prendiamo le mosse.” Tutto qui?

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Second Lenin

Il 7 novembre scorso è stato il 90° anniversario della rivoluzione di Ottobre, che dal 2005 non è più festeggiato nemmeno in Russia, per non parlare delle altre repubbliche ex sovietiche. La festività che ha preso il posto di quella data nel calendario russo ricorda la cacciata dei polacchi da Mosca, nel XVIII secolo (un po’ curioso, no?). Evidentemente quell’evento, pur rivoluzionario, quindi nuovo inizio nella storia russa, non è più riconosciuto come fondante. La rivoluzione dell’Ottobre 1917 non è più un mito fondatore (un mito storico, ovviamente, con radici in un passato ancora accessibile alla memoria di alcuni).
Non se ne parla granché in Russia, figuriamoci altrove. Il Manifesto, quotidiano veramente controcorrente, insiste nel ricordare queste date e questi anniversari che sembrano non interessare più nessuno. Credo che più che retrò siano impertinenti, visto che l’oblio non è mai casuale, e loro rigirano il coltello in una piaga che molti vorrebbero dimenticare.
Il 7 novembre 2007 è uscito un bellissimo libro in edicola, dal titolo forse fuorviante “I rifugi di Lenin”: è un resoconto del viaggio nella Russia contemporanea del giornalista Astrit Dakli e del fotografo Mario Dondero, che si interrogano su cosa resta, di quel passato mitico (nell’accezione di cui sopra), ormai non solo desacralizzato, ma ampiamente rimosso.

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statua di Lenin a Mosca, piazza dell’Ottobre

Il racconto inizia dalla piazza dell’Ottobre, a Mosca, dove ancora abita una enorme statua di Lenin. La piazza, che non è neppure propriamente tale, è bruttissima, afferma Dakli e conferma la sottoscritta, e l’impressione è che non sia stata rimossa perchè in fondo non dava tanto fastidio. In realtà, per quanto strano possa sembrare, Lenin continua ad essere considerato un padre fondatore, anche nella Russia contemporanea che ha rinnegato la Rivoluzione di Ottobre. Non è quindi un caso che mentre nel resto del mondo le statue di Lenin vengono rimosse, a Mosca restano al loro posto. Ancora più significativa la permanenza del corpo di Lenin nel santuario addossato al centro del potere russo – il Cremlino – nella mitica piazza rossa. Qui Lenin, le sue mortali spoglie che tanto mortali non sembrano, devono convivere forzatamente non solo con il potere attuale, ma anche con il volto più sfacciato del mercato: di fronte al mausoleo (architettura peraltro bellissima) gli ex magazzini di stato Gum sono oggi sede delle più note e costose marche del mondo (anche italiane). Magazzini di lusso, del lusso più sfacciato, proprio in fronte al corpo imbalsamato di Lenin. Tante contraddizioni dicono tanto, non solo sulla Russia contemporanea, ma sullo stato del mondo.

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Ma questi secondi Lenin, corpi senza vita, evidentemente non bastavano. Nell’isola di Second Life che riproduce la Piazza Rossa di Mosca è stato realisticamente riprodotto il mausoleo di Lenin, mancano solo le guardie e la coda per entrare: si entra direttamente attraverso una porta automatica, non c’è il percorso obbligato di avvicinamento lento e rispettoso alla salma, che appare quindi immediatamente e un po’ brutalmente. Fuori dal mausoleo, il Cremlino, San Basilio e gli ex magazzini Gum, dove gli avatar che vogliono guadagnare qualche Linden Dollar possono mettersi per un’oretta a pulire i lucenti pavimenti di marmo dei corridoi interni, carponi per terra, con secchio accanto e straccio in mano. Come mai questa second life assomiglia tanto schifosamente alla prima, quando si tratta di denaro?

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superluoghi, Abruzzese e Baricco.

A Bologna si sono inventati un festival dell’urbanistica, e quest’anno è dedicato ai superluoghi, nuova parola che rischia di avere lo stesso successo di un’altra, quella tanto abusata di non-luoghi, inventata (almeno lessicalmente) da Marc Augé.
Sono andata a vedere la mostra, allestita in un sottopassaggio che fatica a trovare nuova destinazione dopo esser stato abbandonato dai negozi che fino agli anni Ottanta ancora vi prosperavano. Sostanzialmente vengono mostrati una serie di video-documentari su diversi centri commerciali di nuova generazione, da Catania a Barberino del Mugello, dalla periferia di Bergamo a quella di Roma, ecc. Nessun territorio è risparmiato, direi, dalla proliferazione di questi super-luoghi, dove sostanzialmente si può fare tutto, quindi luoghi saturi, altro che vuoti e transitori. Luoghi che tendono a far collassare tutto dentro di sè, come buchi neri. Le attività, il tempo, la storia. La mostra li definisce “luoghi di successo” – mah.

Vivo a Bologna come un alieno ormai e scopro della mostra grazie a un articolo di Alberto Abruzzese su Alias di ieri, che come al solito dice le poche parole sensate che servono per uscire dalla banalità e dal senso comune (nella sua accezione più bieca). Abruzzese fra l’altro rilancia, proponendo come paradigmatico dei superluoghi non tanto il centro Leonardo presentato dal festival, che ritiene fallimentare, quanto un’altro luogo, Porta di Roma, sempre nella capitale. La qualità dei superluoghi, scrive Abruzzese, sta nel loro superamento della metropoli, intesa come luogo delle identità moderne, anche in conflitto tra loro, e quindi luogo del radicamento e della memoria. L’esperienza che si può fare entrando nell’ipermercato Porta di Roma viene paragonata alla navigazione in rete, qui sembrano esteriorizzarsi “le esperienze interiori dello spettatore cinematografico e del navigatore del cyper space”.
Cito un passaggio lungo, ma che sento vicinissimo alla mia sensibilità: “qui l’architettura è fatta per azzerarsi a fronte di un solo esserci: la decisione di entrare in questo luogo e sottrarsi a ogni altro luogo del tempo e dello spazio. Staccarsi dalla vita prima e abitare una vita seconda. Esperienza possibile solo per un tratto, per una vacanza: ma esattamente come accade nella rete. E come in rete, i visitors vogliono fare community con se stessi o tra loro. Sperimentano una sorta di libertà metafisica. Respirano l’essenza del capitalismo. Provano una forma di aggregazione svincolata dagli obblighi della società. Un esodo senza spirito di patria e condottieri”. Non si meraviglia dunque che i giovani abbiano abbandonato le piazze delle città per concentrarsi qui (non solo i giovani, fra l’altro).
Questa è la vera second life, mi sa. O comunque, questa esperienza fa a pieno titolo parte di quella seconda vita che ormai è la prima, la più potente, indipendentemente dai vari luoghi in cui si realizza.

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video su YouTube di Porta di Roma

I superluoghi sono i luoghi perfetti per il capitale (sì, proprio quello). Ma sono anche, allo stesso tempo, luoghi di esperienza per i corpi (e su questo Abruzzese ha sempre una lucidità abbastanza rara, di questi tempi).
Cosa c’entra infine Baricco: ma i superluoghi suonano tanto come i luoghi elettivi dei barbari, ovvio, a cui vorrei dedicare almeno un post. Tra poco.

memorie indiane/sono un Lakota…

Non so dire a quando risale il mio interesse per gli indiani. I nativi del continente americano, del nord. Forse la loro è la storia di una scomparsa troppo dolorosa, per essere affrontata così, con leggerezza. Va presa con cautela, a piccoli passi.
Per capirlo basta leggere l’autobiografia di Alce nero, raccolta con rispetto da John G. Neihardt negli anni Trenta. Quando lo scrittore andò alla riserva di Pine Ridge per conoscere Alce Nero, il vecchio Sioux, quasi cieco, lo stava aspettando, e gli diede appuntamento per la primaversa successiva: “c’è tanto che dovrei insegnarti. Ciò che io so, mi è stato dato per gli uomini, ed è vero ed è bello. Presto sarò sotto l’erba e tutto ciò andrà perduto. Sei stato inviato per salvarlo, e devi ritornare perchè io te lo possa insegnare”. Così John/Arcobaleno Fiammeggiante torna e raccoglie dalla voce di Alce Nero la storia del grande sogno di un popolo e della sua tragica conclusione, con il massacro di Wounded Knee (Sud Dakota) nel 1890. “Sono un Lakota* della banda degli Ogdala. Il nome di mio padre era Alce nero, e anche suo padre portava questo nome, e il padre di suo padre, perciò sono il quarto dello stesso nome. …”.

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Alce nero davanti ai Sei Avi nella Tenda dell’Arcobaleno Fiammeggiante (illustrazione di Orso in Piedi)

* con il termine Lakota si distinguono le bande occidentalii degli indiani Dakota, comunemente noti come Sioux, nota Neihardt.

la memoria delle pietre

che la memoria ha a che fare con il potere, ce ne siamo già accorti. ci sono memorie che contano poco, nulla. altre che invece… la memoria ha a che fare anche con il capitale, diciamolo chiaramente, che è una forma attuale del potere. credo la maggiore.
quante possibilità pensate abbia oggi la memoria delle pietre? pietre che ricordano da quasi 30.000 anni. pietre mute, o meglio silenziose, che custodiscono una memoria ancestrale, che fino a poco tempo fa oltre che nella pietra era custodita nei corpi, nei miti degli aborigeni. adesso custodita ormai solo dalle pietre.
Marinella Correggia ci parla oggi, dalle pagine di Alias, della distruzione della memoria delle pietre che costituiscono il più importante sito di petroglifici del nostro pianeta, nella penisola di Burrup e nell’arcipelago di Dampier (Australia Occidentale). Se andate su wikipedia, trovate che Dampier è un importante porto industriale dell’Australia. A me viene in mente Bagnoli, chissà perchè nei posti più belli e ricchi di storia e cultura si vanno a impiantare gli insediamenti più inquinanti e invasivi.

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Alcune località a Burrup sono state dichiarate Luoghi protetti dall’Aboriginal Heritage Act (1972-1980) e alcune sono state inserite o candidate al Register of the National Estate australiano, ma si tratta di interventi frammentari, che non tutelano la memoria delle pietre di Burrup. E prima e dopo il 1972, non è dato sapere quanto di quel patrimonio, non censito, sia già andato distrutto, si legge sul sito dell’associazione che ha promosso una campagna per salvare le pietre di Burrup. Che fanno parte dei siti a rischio di distruzione secondo quanto ha rilevato l’ong National Trust of Australia nel 2004. E’ l’unico sito australiano in pericolo nella rilevazione del 2008 del World Monuments Fund (lo è dal 2004).
Ma queste pietre fanno parte o no della memoria dell’Australia? Fanno parte o no della memoria del mondo? No. Forse. Non ancora. L’arcipelago di Dampier è ancora in attesa di essere inserito nel National Heritage Register da tempo (dovrebbe avvenire a giorni, dicono), e non fa ancora parte dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, pur soddisfacendone tutti i requisiti.
Per rinfrescare la memoria a questi smemorati, nel mondo appaiono e scompaiono mobilitazioni auto-organizzate attraverso il sito di stand up for the burrup, la n. 51 è stata il 24 giugno scorso a Milano (la seconda fatta in Italia), la prossima europea sarà in Francia il 22 luglio, ad Airvault, alle 13:45, al locale Festival dei sogni aborigeni. Che tentazione.

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la guerra della memoria/sfratti e traslochi a Est

Non è solo un’ondata nostalgica ad attraversare l’Europa dell’Est (o almeno alcuni suoi territori: ne ho già parlato qui). Nelle ultime settimane si è assistito a una vera e propria guerra della memoria, con morti (almeno uno) e feriti veri, autentici, non solo metaforici. E’ della fine di aprile la notizia della rimozione dalla sua sede storica del Liberatore, il monumento a memoria dei 50.000 (cinquantamila) soldati sovietici morti nella liberazione dell’Estonia dall’occupazione nazista, che per l’Estonia contemporanea si è tramutato in un simbolo di una successiva occupazione, quella sovietica, cessata solo con l’Indipendenza ottenuta all’inizio degli anni Novanta (grazie alla dissoluzione dell’Urss). La statua di bronzo di due metri d’altezza che da sessant’anni vegliava sulla capitale estone dalla collina di Tonismagi è stata spostata in un periferico cimitero militare insieme alle 13 salme di soldati sovietici che vi riposavano accanto.

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L’Unione Sovietica è il paese che ha sacrificato il maggior numero di soldati nella seconda guerra mondiale, con i suoi 8.860.400 caduti (8 milioni e 800mila e 400) – come si legge qui.
Di questi, ben 600.000 sono morti combattendo contro la Wehrmacht in Polonia tra il 1944 e il 1945, e lì oggi sono sepolti. E, dopo l’Estonia, è oggi la Polonia che cerca di sbarazzarsi del ricordo di quei morti, e di traslocarli anch’essi altrove. Due progetti di legge, uno del ministero della cultura (?) e uno del partito governativo, convergono sulla decisione di rimuovere i momumenti dedicati all’Armata Rossa eretti tra il 1949 e il 1989 sul territorio polacco. Il trasloco forzato avverrà tra poche settimane, vedremo se vi saranno reazioni (dubito) della popolazione.
Cosa andranno a visitare i turisti che si recano a Tallin o nelle città polacche, al posto di questi monumenti ormai storici? (continua…)

PS: il punto è che, mentre apparentemente si spostano statue, si riscrive la storia. E non solo quella polacca, o estone.

memorie partigiane

La memoria è di parte, si sa. E’ una struttura che seleziona tra cose da ricordare e cose da dimenticare. Lo fanno gli individui, lo fanno le società. Più o meno consciamente, conservano e cancellano. La memoria è una proprietà del sistema (sistema vivente, sistema sociale, …).
La memoria è una struttura di senso.

Vi racconto una storia: nei giorni dell’insurrezione armata contro i tedeschi che occupavano le campagne intorno a Bologna, un vecchio casone di caccia nelle valli non ancora bonificate servì da punto di rifugio e poi di raccolta nei giorni di aprile che precedettero la liberazione della città e le ultime battaglie (tra cui quella del 22 aprile nelle campagne di San Pietro). Dopo la guerra, il casone crollò. Verso gli anni Settanta, i partigiani del luogo promuovono la ricostruzione del casone, e la notte dell’8 settembre 1981 il loro lavoro rischia di sfumare per un tentativo di incendio doloso. Ricordare e dimenticare. Oggi il Casone Partigiano è un luogo di memoria, della Resistenza e della lotta di liberazione. Eccolo, ancora mimetizzato tra le fronde. L’abbiamo scoperto per caso, di ritorno dalla mostra di Daniele.

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il Casone Partigiano

Corpi liquidi (pillole per dimenticare/2)

Qualche tempo fa Giulia mi ha raccontato di una pillola che elimina il ciclo mestruale, questa notizia mi è rimasta in un angolo della mente, ha sedimentato, in attesa di trovare connessioni, senso. Così la settimana scorsa questa notizia si è rimessa in moto in connessione con un racconto sulla mitologia femminile. Con una serie di racconti di donne sulle donne.
Il racconto (innescato da Lorenzo) che ha richiamato gli altri è quello dell’archeologa e mitologa Marija Gimbutas, che ha trovato le tracce del mito della grande madre nei suoi scavi sul Neolitico nell’Europa Antica (7000-3000 a.C.). Quello della grande madre è un racconto di nascita, morte e rigenerazione, strettamente legato alla terra.
Mi sono allora ricordata che Anne Cameron, superstite della tribu degli indiani Nootka del Canada, racconta che le donne durante il ciclo mestruale facevano festa per quattro giorni: si allontanavano dal villaggio e si recavano in un luogo sacro, si sedevano sulla terra, che si nutriva del loro sangue. Restituivano il sangue alla terra. Terra e sangue sembrano molto legati, così come sia la terra sia il sangue sembrano legati alla vita. Il periodo del ciclo mestruale era chiamato il tempo della luna.
Questi racconti femminili antichi sono, credo, molto attuali. Attuali e contemporaneamente molto in contrasto con il presente. Parlano di un tempo ciclico, che è soprattuto un tempo qualitativo, intriso di qualità. Parlano di qualità e di valore d’uso: del tempo, della terra, del corpo e dei suoi flussi. In questo caso, del corpo femminile e dei suoi flussi così palesi, difficilmente celabili, difficilmente dimenticabili.
Ma questo solo finchè arriva una pillola che consente di cancellare il ciclo, di ristabilire un ordine indistinto del tempo. Nessun ciclo: un tempo liquido, senza discontinuità, senza rimandi alla qualità del corpo e dei suoi flussi vitali. (ma la liquidità non era una peculiarità del denaro?)
Credo che non dovrebbero preoccuparsene solo le femministe. Fossi in voi me ne preoccuperei, uomo o donna che siate. Del problema se ne occupa fra gli altri Giovanna Chesler, docente di cinema alla University of California di San Diego, con il suo documentario, «Period: the end of menstruation?».
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memoria di madre

In Argentina le sparizioni iniziarono tra il 1974 e il 1975, erano già 600 i desaparecidos quando nel 1976 si insediò la dittatura militare (1976-1983). Stanche di non trovare risposta, di non sapere che fine avevano fatto i loro figli, un giorno le madri dei desaparecidos decisero di andare in piazza, nella piazza centrale di Buenos Aires, nella piazza del potere: la Plaza de Mayo.
Ricordano le madri: “y así fuimos por primera vez un sábado. Nos dimos cuenta que no nos veía nadie, que no tenía ningún sentido. Era un 30 de abril. Decidimos volver a la otra semana un viernes. Y a la otra semana decidimos ir el jueves”. Era il 30 aprile 1977, e da quel giorno ogni giovedì le madri si trovano in quella piazza, a ricordare i loro figli, a farli rinascere, a chiedere giustizia per gli oltre 30.000 scomparsi. E insieme alle madri, le nonne, alla ricerca dei nipoti “rubati”.

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Grazie al quotidiano che ricorda oggi, primo maggio, questo anniversario, questa storia ben lontana dall’essere conclusa: è infatti solo di pochi giorni fa la notizia che la grazia concessa nel 1990 dall’allora presidente argentino Menem al generale Videla è stata annullata, e Videla dovrà (finalmente) tornare a scontare l’ergastolo, così come l’ammiraglio Massera.

memorie di scomparse

vi ricordo: questo blog è sulla memoria (non sulla commemorazione).
Oggi sfogliando Internazionale, ho visto delle immagini che mi hanno toccato. Sarà perchè volevo fare la fotografa, sarà perchè ho una sensibilità particolare per le sofferenze e i drammi dell’America Latina del Novecento. Le immagini riguardano i luoghi di memoria dei desaparecidos argentini, cancellati dai vari regimi militari che si sono succeduti negli anni Settanta e Ottanta, trasformando garage, caserme e scuole in luoghi di tortura e di sterminio. A Roma, all’interno del festival internazionale di fotografia, una mostra è dedicata al lavoro di Giorgio Palmera, se volete andare. Se non andate, pensateci sopra, comunque.
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Foto di Giorgio Palmera, rovine del Club Atletico


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