Per segnare la data del 25 aprile nel calendario del 2009 consiglio la lettura dell’editoriale di Marco Revelli sul Manifesto di oggi. Amaro, duro, ma purtroppo molto condivisibile.
Il 25 aprile, festa della liberazione dal nazifascismo, è una data cruciale nel calendario dell’Italia antifascista, non solo di sinistra. Quello che sta accadendo oggi, sembra assomigliare a una cancellazione del valore di quell’evento – simbolico, sintetico di quanto è avvenuto intorno al 25 aprile nella regione dove vivo e in parte dell’Italia, ma che ha prodotto effetti per tutti gli italiani di allora – attraverso una sua assimilazione. La memoria collettiva lavora non soltanto cancellando le date e gli eventi da dimenticare, ma anche producendo commistioni e vicinanze che svuotano il significato degli eventi. Tanto che il presidente del consiglio attuale fa un gioco di prestigio e parla del 25 aprile come “festa della libertà”.
Cito la prima parte del testo di Marco Revelli, ma consiglio la lettura, dove esplicita meglio questo lavorio della memoria revisionista:
Non c’è, oggi, nulla da festeggiare. Né tantomeno da condividere. Sarebbe ipocrisia non dirlo.
Dobbiamo ammetterlo. Con angoscia. Ma anche con quel po’ di rispetto che merita ancora la verità: il 25 aprile è diventato una “terra di nessuno”. Un luogo della nostra coscienza collettiva vuoto, se ognuno può invitarvi chi gli pare, anche i peggiori nemici della nostra democrazia e i più incalliti disprezzatori della nostra resistenza. E se ognuno può farvi e dirvi ciò che gli pare: usarlo come tribuna per proclamare l’equivalenza tra i partigiani che combatterono per la libertà e quelli della Repubblica di Salò che si battevano con i tedeschi per soffocarla, come va ripetendo l’attuale ministro della difesa. O per denunciarne – dopo averlo disertato per anni – l’ ”usurpazione” da parte delle sinistre che se ne sarebbero indebitamente appropriate, come l’attuale grottesco e tragico presidente del Consiglio.
O ancora – in apparenza l’atteggiamento più nobile, in realtà il più ambiguo ma anche il più diffuso – per riproporre l’eterna retorica della “memoria condivisa”: quella che in nome di un’ Unità della Nazione spinta fino ai precordi dell’anima, all’interiore sentire, vorrebbe cancellare – anzi “rimuovere”, come accade nelle peggiori patologie psichiche – il fatto, “scandaloso”, che allora, in quel 25 aprile, ma anche nei durissimi decenni che lo precedettero e prepararono, si scontrarono due Italie, segnate da interessi e passioni contrastanti, da valori e disvalori contrapposti. Due modi radicalmente in conflitto tra loro, di considerarsi italiani.
Un’Italia, da una parte, in origine spaventosamente minoritaria, sopravvissuta nei reparti di qualche fabbrica, nei quartieri operai delle grandi città, lungo i percorsi sofferti dell’esilio, nelle carceri e nelle isole del confino (quelle di cui il “premier” parla come di luoghi di vacanza): un’Italia quasi invisibile, fatta di inguaribili eretici, di testardi critici ad ogni costo, anche quando le folle plaudenti sembravano dar loro torto, di gente intenzionata a “non mollare” anche quando il “popolo” stava dalla parte del despota, di “disfattisti” contro la retorica di regime, anche quando le legioni marciavano sulle vie dell’Impero… L’Italia, insomma, dei “pochi pazzi” che, come disse Francesco Ruffini, uno dei pochissimi professori che non giurarono, deve in modo ricorrente rimediare agli errori fatali dei “troppi savi”… E dall’altra parte l’Italia, sempre plaudente dietro qualche padrone, delle folle oceaniche, degli inebriati dal mito della forza e del successo, dei fedeli del culto del capo. L’Italia “vecchissima, e sempre nuova dei furbi e dei servi contenti”, come scrisse Norberto Bobbio: quelli che considerano la critica un peccato contro lo spirito della Nazione, e la discussione un lusso superfluo.
Vinse la prima: il 25 aprile sanziona appunto quella insperata, impossibile vittoria. E vincendo finì per riscattare tutti, permettendo persino, con quella sua sofferta vittoria, all’altra Italia di mascherarsi e di non fare i conti con se stessa. Sicuramente di non pagare, come avrebbe meritato, i propri crimini ed errori.
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Per questo secondo Revelli oggi non ha molto senso andare nelle piazze, terra di nessuno occupata da significati che con il 25 aprile non hanno molto a che fare. Non consiglia certo di andare al mare, ci mancherebbe. Ma forse è il momento giusto per tornare in montagna, fisicamente e idealmente, per ritrovare la strada del 25 aprile. Saluti da Monte Sole.

quel che resta della chiesa di San Martino dopo l’eccidio e l’incendio del 1944 ad opera dei nazisti tedeschi
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