Archive for the 'mercato' Category

memorie da demolire

Sembra che alla lista degli edifici destinati a scomparire si aggiunga la casa degli artisti di Mosca, che attualmente ospita la collezione del Novecento della galleria Tretjakov. Ne scrive Astrit Dakli qui.
La storia non è certo nuova, l’edificio non è certo tra i più belli e tanti altri hanno conosciuto a Mosca analogo destino – ma si distrugge per far posto al nuovo, di solito. Qui il nuovo ancora pare non esistere, se non nella forma generica di un interesse economico.
Ricordo l’aura un po’ polverosa da vestigia sovietica dell’atrio della casa degli artisti, cancellata ben presto dalla meraviglia per le opere che contiene. Che esistono davvero, sono lì, e rischiano uno sfratto prima di aver trovato nuovo asilo. mah.
è il mercato, bellezza.


vedute impossibili: San Salvatore, Cremlino e Moscova attraverso le finestre dell’hotel Russja (già demolito)

la bio-memoria del mondo

I mormoni conservano gli archivi genealogici in grotte scavate nelle montagne. Gli scienziati norvegesi conservano in grotte di ghiaccio le informazioni sulla biodiversità vegetale del mondo. E’ di qualche giorno fa la notizia dell’inaugurazione ufficiale di quella che è stata metaforicamente chiamata l’Arca di Noè dei semi, gallerie a pochi chilometri dal Polo Nord che conservano i semi delle specie che potrebbero essere distrutti da catastrofi naturali o causate dall’uomo. Non so dove, ho letto che al finanziamento è interessato Bill Gates (la sua fondazione). Non solo lui, leggo qui. Notizia da non sottovalutare.

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c’erano una volta le case del popolo

Racconto la storia: a San Vito di Spilamberto, in provincia di Modena, nella Rossa Emilia, c’è una casa del popolo, si chiama Rinascita. Fu costruita nel 1949, a sostituzione e riscatto della cooperativa di consumo che nel 1921 fu assaltata e bruciata dai fascisti. Oggi Rinascita subisce il destino generale del patrimonio culturale e immobiliare del più grande partito della sinistra italiana, di cui fa parte: futuro incerto o fosco, a seconda dei casi. La casa del popolo è stata venduta dai Ds di Modena, pare, a un costruttore privato, racconta Michele Smargiassi sul Venerdì di Repubblica dell’11 gennaio scorso. Reazione: nel paese si costituisce un comitato contrario alla demolizione (per lasciare il posto a villette a schiera?!). Come se non fossero bastati i fascisti allora, adesso ci si mette il mercato.

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La Rinascita è un pezzo di storia locale, e una testimonianza del legame tra architettura, arti visive e politica che ha caratterizzato il secondo dopoguerra, come ben documenta l’articolo di Andrea Costa, ripreso sul numero di gennaio de Il giornale dell’architettura. Ma non è tanto questo che conta: sulla facciata, a lato dell’entrata, una specie di altorilievo rappresenta l’epopea della resistenza partigiana, che ha portato alla libertà del popolo, di operai, contadini e intellettuali uniti. Smargiassi ha colto il punto: quelle figure non sono figure astratte, ideal tipi da retorica di stato o di partito, sono uomini e donne reali, che hanno combattuto davvero, desiderato davvero. L’uomo al centro è il partigiano Luciano Orlandi, impiccato davvero dai tedeschi. Capite dunque perchè il fratello, Renzo Orlandi, già sindaco di Spilamberto, sia tra i fondatori del Comitato contro la demolizione della Rinascita: “c’è il mio sangue, in questi muri”. Per questo credo che la sola idea di demolire quell’altorilievo sia assimilabile a una profanazione. Alla faccia della giornata della memoria.

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Nel bar del circolo Arci ospitato nell’edificio della Rinascita, affollato di stranieri, non ho trovato tracce di questo comitato di resistenti. Se posso far qualcosa, sono qui.ù

Aggiornamento: sabato prossimo (9 febbraio) ci sarà un incontro alla Rinascita per ragionare sul da farsi, io vado, sperando di poter essere utile a qualcosa. Se qualcuno fosse interessato, è alle ore 9.

memorie per il marketing: corpi e brand

sto concludendo il mio corso del primo semestre di sociologia degli oggetti di consumo. per la prima volta quest’anno ho tentato di far lavorare molto gli studenti sulla connessione tra consumo e memoria, di farli ragionare su questo legame, anche a partire da casi concreti.
il luogo è particolarmente interessante, perchè sono studenti di comunicazione pubblicitaria, la maggior parte brand victim, almeno così penso io, così intuisco da alcuni discorsi di alcuni di loro. ripongono grandi aspettative sui brand e sulla comunicazione del brand, a cui legano il loro futuro. così intuisco io. magari mi sbaglio. magari.

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La memoria è un tema di grande rilevanza antropologica, ossia è un tema cruciale per il senso, per la vita individuale. Ma: allo stesso tempo, la memoria sta diventando sempre più un tema di pertinenza del mercato: del consumo, dei brand, del marketing. In Francia stanno crescendo gli studi settoriali sul cosiddetto marketing mémoriel, che è collegato al marketing esperienziale e al marketing emozionale in genere. Il marketing cerca l’insight, cerca di toccare il cuore del consumatore, per legarlo al brand, al prodotto. Le emozioni sono quindi il nuovo campo di battaglia del marketing, e i brand sembrano paradossalmente i più interessati a prendersi carico dei problemi di memoria dei consumatori (che prima di tutto sono esseri umani). Se ne pre-occupano molto più di altri settori della società, che latitano tragicamente (un esempio: i partiti, ma anche l’università, tanto per non tirarsi fuori).
L’enfasi sulle emozioni (sulla sensorialità, sul corpo, sul sentire, sul vivere, sul fare esperienza, sulla tribalità collettiva e non ultimo sulla memoria) è un tratto cruciale del marketing contemporaneo, della comunicazione dei brand. Il marketing, i brand, possono oggi dialogare direttamente con le emozioni dei consumatori, senza mediazione: senza la mediazione di culture intermedie e forme comunitarie che ancora nella modernità davano forma all’esperienza individuale (penso ad esempio alle classi sociali, alle grandi narrazioni, ma anche alla stessa famiglia, perché no). Brand ed emozioni incarnate (corpi) sono oggi uno di fronte all’altro, senza mediazione.
Beh, non ve ne eravate già accorti?

PS: Dedico questo post ai 30-35 studenti del mio corso di quest’anno che hanno mostrato di non essere signature victim, se un po’ mi dispiace di aver ormai finito il corso è decisamente colpa loro.

cose da turchi (non solo)

E’ di ieri la notizia su Repubblica che una casa editrice turca ha adattato alla cultura islamica la cristianissima storia di Heidi, la piccola orfana che oltre ad essere un mito nella sua natia svizzera è un mito globale, con risonanza su tutti i media di tutto il mondo.

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l’Heidi di Miyazaki

La casa editrice turca Karanfil ha infatti cambiato le illustrazioni che accompagnano il romanzo della scrittice ottocentesca, Johanna Spyri, allungando l’abitino di Heidi per nascondere le mutande (che in particolare nella storia animata dal grande Miyazaki sono spesso visibili), e ha “imposto” il velo alla nonna di Clara e alla signorina Rottermeier. Come se la rigidità morale e bigotta di questa seconda signorina non fosse stata sufficiente nella sua versione originale.
La casa editrice turca ha quindi indigenizzato il prodotto culturale Heidi (direbbe forse Appadurai) per renderlo più vicino alla quotidianità dei bambini turchi. Peccato che la Turchia non sia unanimemente considerata un paese confessionale (islamico), anzi, per alcune significative voci (di cui dà conto la stessa stampa turca) dovrebbe essere un paese laico. La risonanza interna della notizia riguarda dunque una diversa visione della cultura che sarebbe lo sfondo ordinario delle bambine e dei bambini turchi.

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a sinistra: illustrazione originale; a destra: illustrazione del libro turco, commentato dal quotidiano turco Aksam che si preoccupa di “cosa debba sopportare l’aristocratica signora Sesemann”, coperta da velo e abito islamico (pubblicate da die Welt.

La vicenda non è nuova nè particolamente strabiliante. Per chi si occupa di oggetti di consumo, e tra questi di giocattoli, gli esempi negli anni recenti si sprecano. Ne cito solo uno: Fulla, che possiamo considerare la variante islamica della Barbie occidentale. Fulla è un prodotto di origine siriana, e si presenta con caratteri contraddittori ma assai intriganti: rispettosa dei genitori e coperta dalla testa ai piedi da un manto nero, ama però parecchio lo shopping. Ho portato la mia Fulla a lezione la settimana scorsa, per mostrarla ai miei studenti (che fra l’altro mi hanno insinuato il dubbio che sia tarocca: ci sono già le contraffazioni!): l’esercizio prevedeva un’analisi accurata del prodotto, fin nelle sue caratteristiche più intime. Fulla (a differenza di Barbie), non può essere interamente spogliata, perchè sotto il vestito coperto a sua volta dal tradizionale manto nero (l’abaya) ha disegnata una mutanda. Incorporata.

mia_fulla.jpg la mia Fulla

Second Lenin

Il 7 novembre scorso è stato il 90° anniversario della rivoluzione di Ottobre, che dal 2005 non è più festeggiato nemmeno in Russia, per non parlare delle altre repubbliche ex sovietiche. La festività che ha preso il posto di quella data nel calendario russo ricorda la cacciata dei polacchi da Mosca, nel XVIII secolo (un po’ curioso, no?). Evidentemente quell’evento, pur rivoluzionario, quindi nuovo inizio nella storia russa, non è più riconosciuto come fondante. La rivoluzione dell’Ottobre 1917 non è più un mito fondatore (un mito storico, ovviamente, con radici in un passato ancora accessibile alla memoria di alcuni).
Non se ne parla granché in Russia, figuriamoci altrove. Il Manifesto, quotidiano veramente controcorrente, insiste nel ricordare queste date e questi anniversari che sembrano non interessare più nessuno. Credo che più che retrò siano impertinenti, visto che l’oblio non è mai casuale, e loro rigirano il coltello in una piaga che molti vorrebbero dimenticare.
Il 7 novembre 2007 è uscito un bellissimo libro in edicola, dal titolo forse fuorviante “I rifugi di Lenin”: è un resoconto del viaggio nella Russia contemporanea del giornalista Astrit Dakli e del fotografo Mario Dondero, che si interrogano su cosa resta, di quel passato mitico (nell’accezione di cui sopra), ormai non solo desacralizzato, ma ampiamente rimosso.

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statua di Lenin a Mosca, piazza dell’Ottobre

Il racconto inizia dalla piazza dell’Ottobre, a Mosca, dove ancora abita una enorme statua di Lenin. La piazza, che non è neppure propriamente tale, è bruttissima, afferma Dakli e conferma la sottoscritta, e l’impressione è che non sia stata rimossa perchè in fondo non dava tanto fastidio. In realtà, per quanto strano possa sembrare, Lenin continua ad essere considerato un padre fondatore, anche nella Russia contemporanea che ha rinnegato la Rivoluzione di Ottobre. Non è quindi un caso che mentre nel resto del mondo le statue di Lenin vengono rimosse, a Mosca restano al loro posto. Ancora più significativa la permanenza del corpo di Lenin nel santuario addossato al centro del potere russo – il Cremlino – nella mitica piazza rossa. Qui Lenin, le sue mortali spoglie che tanto mortali non sembrano, devono convivere forzatamente non solo con il potere attuale, ma anche con il volto più sfacciato del mercato: di fronte al mausoleo (architettura peraltro bellissima) gli ex magazzini di stato Gum sono oggi sede delle più note e costose marche del mondo (anche italiane). Magazzini di lusso, del lusso più sfacciato, proprio in fronte al corpo imbalsamato di Lenin. Tante contraddizioni dicono tanto, non solo sulla Russia contemporanea, ma sullo stato del mondo.

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Ma questi secondi Lenin, corpi senza vita, evidentemente non bastavano. Nell’isola di Second Life che riproduce la Piazza Rossa di Mosca è stato realisticamente riprodotto il mausoleo di Lenin, mancano solo le guardie e la coda per entrare: si entra direttamente attraverso una porta automatica, non c’è il percorso obbligato di avvicinamento lento e rispettoso alla salma, che appare quindi immediatamente e un po’ brutalmente. Fuori dal mausoleo, il Cremlino, San Basilio e gli ex magazzini Gum, dove gli avatar che vogliono guadagnare qualche Linden Dollar possono mettersi per un’oretta a pulire i lucenti pavimenti di marmo dei corridoi interni, carponi per terra, con secchio accanto e straccio in mano. Come mai questa second life assomiglia tanto schifosamente alla prima, quando si tratta di denaro?

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superluoghi, Abruzzese e Baricco.

A Bologna si sono inventati un festival dell’urbanistica, e quest’anno è dedicato ai superluoghi, nuova parola che rischia di avere lo stesso successo di un’altra, quella tanto abusata di non-luoghi, inventata (almeno lessicalmente) da Marc Augé.
Sono andata a vedere la mostra, allestita in un sottopassaggio che fatica a trovare nuova destinazione dopo esser stato abbandonato dai negozi che fino agli anni Ottanta ancora vi prosperavano. Sostanzialmente vengono mostrati una serie di video-documentari su diversi centri commerciali di nuova generazione, da Catania a Barberino del Mugello, dalla periferia di Bergamo a quella di Roma, ecc. Nessun territorio è risparmiato, direi, dalla proliferazione di questi super-luoghi, dove sostanzialmente si può fare tutto, quindi luoghi saturi, altro che vuoti e transitori. Luoghi che tendono a far collassare tutto dentro di sè, come buchi neri. Le attività, il tempo, la storia. La mostra li definisce “luoghi di successo” – mah.

Vivo a Bologna come un alieno ormai e scopro della mostra grazie a un articolo di Alberto Abruzzese su Alias di ieri, che come al solito dice le poche parole sensate che servono per uscire dalla banalità e dal senso comune (nella sua accezione più bieca). Abruzzese fra l’altro rilancia, proponendo come paradigmatico dei superluoghi non tanto il centro Leonardo presentato dal festival, che ritiene fallimentare, quanto un’altro luogo, Porta di Roma, sempre nella capitale. La qualità dei superluoghi, scrive Abruzzese, sta nel loro superamento della metropoli, intesa come luogo delle identità moderne, anche in conflitto tra loro, e quindi luogo del radicamento e della memoria. L’esperienza che si può fare entrando nell’ipermercato Porta di Roma viene paragonata alla navigazione in rete, qui sembrano esteriorizzarsi “le esperienze interiori dello spettatore cinematografico e del navigatore del cyper space”.
Cito un passaggio lungo, ma che sento vicinissimo alla mia sensibilità: “qui l’architettura è fatta per azzerarsi a fronte di un solo esserci: la decisione di entrare in questo luogo e sottrarsi a ogni altro luogo del tempo e dello spazio. Staccarsi dalla vita prima e abitare una vita seconda. Esperienza possibile solo per un tratto, per una vacanza: ma esattamente come accade nella rete. E come in rete, i visitors vogliono fare community con se stessi o tra loro. Sperimentano una sorta di libertà metafisica. Respirano l’essenza del capitalismo. Provano una forma di aggregazione svincolata dagli obblighi della società. Un esodo senza spirito di patria e condottieri”. Non si meraviglia dunque che i giovani abbiano abbandonato le piazze delle città per concentrarsi qui (non solo i giovani, fra l’altro).
Questa è la vera second life, mi sa. O comunque, questa esperienza fa a pieno titolo parte di quella seconda vita che ormai è la prima, la più potente, indipendentemente dai vari luoghi in cui si realizza.

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video su YouTube di Porta di Roma

I superluoghi sono i luoghi perfetti per il capitale (sì, proprio quello). Ma sono anche, allo stesso tempo, luoghi di esperienza per i corpi (e su questo Abruzzese ha sempre una lucidità abbastanza rara, di questi tempi).
Cosa c’entra infine Baricco: ma i superluoghi suonano tanto come i luoghi elettivi dei barbari, ovvio, a cui vorrei dedicare almeno un post. Tra poco.

consumo e memoria

sto faticosamente tentando di scrivere un articolo. in teoria è già scritto, ma solo in teoria. è tutto nella testa ma non riesce a mettersi in ordine sulla carta. estremo tentativo: anticipare il contenuto sul blog.
devo scrivere un articolo su come il consumo ha un ruolo nella produzione delle biografie individuali (e collettive). è chiaro che c’entra la memoria, la capacità degli oggetti materiali di fissare i significati. un individuo e un gruppo riescono a fissare il senso della loro esistenza grazie a una costellazione di oggetti che in qualche modo li caratterizzano. che li rendono specifici. fin qui niente di nuovo.
la cosa che credo sia interessante è questa: nell’ex Germania Orientale, dopo la caduta del muro di Berlino, la trasformazione dei prodotti della società socialista in merci (o oggetti di consumo nell’accezione occidentale, di mercato) è stato paradossalmente il modo con cui i tedeschi dell’est sono riusciti ad affermare in modo positivo, assertivo, il valore delle loro biografie e della loro identità. ad affermarla in opposizione alle descrizioni delle loro biografie e della loro identità che venivano prodotte a Ovest (e che continuano ad essere prodotte ad ovest, malgrado loro).
credo che questo sia un bell’esempio di uso non proprio ortodosso dei significati e delle logiche più profonde delle merci. anche se non si può nemmeno essere troppo entusiasti. anche se non nega gli aspetti più macroscopici delle trasformazioni della germania orientale e dei paesi dell’est in genere (ho letto cronache preoccupanti sull’Ungheria, recentemente).

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Letture consigliate, a me innanzitutto (già ordinato in libreria): Vite nuove, romanzo dello scrittore di Dresda Ingo Schulze. Qui un’intervista.

Aggiornamento di inizio 2008: Vite nuove lo sto ancora leggendo, ma l’articolo ho finito di scriverlo da un pezzo. Alla fine si intitola La fabbrica delle memorie ed è pubblicato qui, per chi fosse interessato a leggerlo.

senza Gorz

dovremo fare a meno, purtroppo, di André Gorz. anche di lui. È stata una brutta sorpresa vedere stamattina (ieri) il nome e il volto di André Gorz sulla prima pagina del mio giornale. Ho temuto si annunciasse la sua scomparsa, non avrei mai pensato di leggere l’annuncio del suo suicidio, di un suicidio di coppia, di Gorz insieme alla moglie da tempo malata.
Qualche giorno fa un giovane amico mi ha chiesto di chi mi sarebbe piaciuto esser stata allieva. Pensando ai grandi di cui ho profondamente amato i libri, mi è venuto spontaneo tirar fuori il nome di Gorz. La sua Metamorfosi del lavoro, scoperto per caso tra le novità della libreria di Gregorio e Marta, in via delle Moline a Bologna, ha segnato la svolta della mia tesi di dottorato. Ha acceso una scintilla, come raramente accade, leggendo un libro. L’amore per quel primo libro scoperto mi ha portato a cercare i libri precedenti – Addio al proletariato, La strada del paradiso – e a ricostruire il pensiero di uno studioso che sentivo molto vicino. E che per me, suo malgrado, è stato veramente un maestro.

Non mi va ora di ricostruire la sua biografia, preferisco rimandare a qualche articolo sulla stampa.

la memoria delle pietre

che la memoria ha a che fare con il potere, ce ne siamo già accorti. ci sono memorie che contano poco, nulla. altre che invece… la memoria ha a che fare anche con il capitale, diciamolo chiaramente, che è una forma attuale del potere. credo la maggiore.
quante possibilità pensate abbia oggi la memoria delle pietre? pietre che ricordano da quasi 30.000 anni. pietre mute, o meglio silenziose, che custodiscono una memoria ancestrale, che fino a poco tempo fa oltre che nella pietra era custodita nei corpi, nei miti degli aborigeni. adesso custodita ormai solo dalle pietre.
Marinella Correggia ci parla oggi, dalle pagine di Alias, della distruzione della memoria delle pietre che costituiscono il più importante sito di petroglifici del nostro pianeta, nella penisola di Burrup e nell’arcipelago di Dampier (Australia Occidentale). Se andate su wikipedia, trovate che Dampier è un importante porto industriale dell’Australia. A me viene in mente Bagnoli, chissà perchè nei posti più belli e ricchi di storia e cultura si vanno a impiantare gli insediamenti più inquinanti e invasivi.

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Alcune località a Burrup sono state dichiarate Luoghi protetti dall’Aboriginal Heritage Act (1972-1980) e alcune sono state inserite o candidate al Register of the National Estate australiano, ma si tratta di interventi frammentari, che non tutelano la memoria delle pietre di Burrup. E prima e dopo il 1972, non è dato sapere quanto di quel patrimonio, non censito, sia già andato distrutto, si legge sul sito dell’associazione che ha promosso una campagna per salvare le pietre di Burrup. Che fanno parte dei siti a rischio di distruzione secondo quanto ha rilevato l’ong National Trust of Australia nel 2004. E’ l’unico sito australiano in pericolo nella rilevazione del 2008 del World Monuments Fund (lo è dal 2004).
Ma queste pietre fanno parte o no della memoria dell’Australia? Fanno parte o no della memoria del mondo? No. Forse. Non ancora. L’arcipelago di Dampier è ancora in attesa di essere inserito nel National Heritage Register da tempo (dovrebbe avvenire a giorni, dicono), e non fa ancora parte dei siti dichiarati patrimonio dell’umanità dall’Unesco, pur soddisfacendone tutti i requisiti.
Per rinfrescare la memoria a questi smemorati, nel mondo appaiono e scompaiono mobilitazioni auto-organizzate attraverso il sito di stand up for the burrup, la n. 51 è stata il 24 giugno scorso a Milano (la seconda fatta in Italia), la prossima europea sarà in Francia il 22 luglio, ad Airvault, alle 13:45, al locale Festival dei sogni aborigeni. Che tentazione.

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