Archivio per marzo 2007

pillole per dimenticare/corpi senza parola

C’è chi si preoccupa di ricordare, chi invece cerca in tutti modi di consentirci di dimenticare. Così diversi ricercatori stanno lavorando da tempo a una pillola per dimenticare, in particolare per cancellare le tracce di ricordi sgraditi. Ricordi traumatici, causati da violenze, guerre, lutti… Qualche giorno fa un telegiornale riportava la notizia che un gruppo di ricercatori di New York avrebbero sperimentato la pillola su dei topi, con risultati soddisfacenti. La pillola non farebbe dimenticare il trauma, ma ne renderebbe meno doloroso il ricordo, e interferirebbe sul trasferimento dalla memoria a breve termine a quella a lungo termine.

Uno dei più bei capitoli del libro di Aleida Assmann sul ricordare è sicuramente quello dedicato al corpo. Lo consiglio vivamente. Ci parla delle emozioni e del trauma come forme di memoria mediate dal corpo. “Ci sono esperienze e ferite che si inscrivono sul corpo che … si sottraggono alla manipolazione volontaria”. Questo ci aiuta a capire la differenza tra una memoria della mente e una memoria del corpo. La prima è flessibile, e muta continuamente adeguando il passato al presente ma, nel fare questo, trova un ostacolo, un vincolo: la memoria del corpo. Nel trauma, ci racconta la Assmann, il corpo è come la pellicola fotografica su cui la luce imprime l’immagine, il trauma sottrae l’esperienza alla possibilità del racconto e della riflessione. Nel trauma il vissuto (il corpo) rimane senza parola.

I traumi che la pillola della memoria deve rimuovere sono quindi iscrizioni nel corpo che costituiscono un ostacolo alla flessibilità della memoria della mente. Forse è per questo che hanno inventato questa pillola. Chissà se ne sarà capace.

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Immagine di Gilles Cohen, in C. Chèroux Mémoire des camps

disegnare per ricordare

Daniele ha sempre avuto qualche problema con la comunicazione. Con le parole. Il suo linguaggio era la fotografia. Disegnava con la luce. Amava anche i fumetti. Lo testimonia Igort, quando parla del suo Baobab: “Mentre lavoravo a questa storia c’era uno scambio di vedute e molte chiacchiere teoriche nella mia casa di Bologna con Lorenzo Mattotti e Giorgio Carpinteri. Si vedeva il fumetto come un linguaggio che poteva unire diverse cose distanti. Nel mio caso, come ho detto, il tropicalismo e l’oriente, ma anche una mentalità geometrica e un senso di nostalgia, si stringevano la mano. In quei giorni ricordo che il mio amico e fotografo Daniele Lelli mi diceva che ogni volta che si trovava a leggere una puntata di Baobab sudava. L’ho sempre preso per un complimento. Era il caldo del Parador che trapassava le pagine stampate”.

Anche per Igort disegnare è un modo per ricordare: “i ricordi sono ingrediente fondamentale per definire i luoghi di una mitologia personale; disegnare certe scene è un tuffo verticale nella memoria. Di una memoria collettiva, talvolta, un passato che spesso non ho neppure vissuto, tanto è antico. Eppure quando disegno le cose che si materializzano sul foglio, quando tutto va bene, suonano “vere”.

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Sentieri della memoria: camminare per ricordare

Ieri mi è capitato tra le mani un libro, più precisamente una guida per camminatori. “Sentieri partigiani in Italia”, si intitola, sottotitolo “A piedi su alcuni dei più bei percorsi della Resistenza”. L’ho presa perchè A., l’amica che era con me in libreria, è una grande camminatrice e da tempo tenta di farmi attraversare l’Appennino a piedi. “Pensa cosa si prova, a ripercorrere quei sentieri, cosa si può sentire”. Io mi chiedo chissà cosa vorrebbero farci ricordare. La guida è abbastanza esplicita, in realtà – la fuga degli ebrei italiani verso la Francia, le battaglie partigiane, i campi di prigionia, gli eccidi nazisti nelle comunità montane: luoghi di memoria collettiva dell’Italia, o almeno di quella parte di Italia che riconosce nella Resistenza un atto fondativo, un vero e proprio mito storico. Camminare è un modo di ascoltare, propone l’autore Diego Marani nell’introduzione, e camminare su questi sentieri della memoria è un nuovo modo di ricordare che da alcuni anni è stato inventato. Proprio nel momento in cui la scomparsa delle memorie vive (insieme al proliferare delle commemoriazioni ufficiali) rischiava di far dimenticare.
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PS: la prima volta che ho sentito parlare di sentieri partigiani era l’estate 2004, e da lì ho iniziato a ragionare sul turismo della memoria. Si trattava di camminate accompagnate da testimonianze partigiane nell’Appennino reggiano, organizzate dall’Istituto per la storia della Resistenza; la 13° edizione dei Sentieri Partigiani si terrá dal 6 al 9 settembre 2007.

giochi di memoria

Auch du erinnerst dich! Ovvero, anche tu ti ricordi?
Leggevo questa mattina, tra i vecchi giornali che mi si accatastano in (vana) attesa di essere sfogliati, un articolo su un Domenicale del Sole24ore sui problemi di memoria della Germania, in relazione al nazismo. Capita spesso di trovare articoli o libri su questo tema. Il problema della memoria della Germania contemporanea è ancora più complesso, e si è arricchito (se si può usare l’espressione) di nuove emozioni e contenuti negli ultimi anni, in seguito alla caduta del muro di Berlino.
Un po’ perché ho dei ricordi vissuti al riguardo, un po’ perché la Germania mi è vicina trovo di particolare interesse il nuovo sguardo nostalgico (a tratti vissuto, a tratti costruito) con cui gli abitanti dell’ex Germania Orientale guardano al loro passato. Ostalgia, l’hanno chiamata. Tralasciamone la complessità, per ora.
Questo fenomeno è sullo sfondo di una nuova serie di “oggetti ostalgici”, in cui sono io stessa inciampata. Tra questi segnalo un gioco da tavolo, il cui nome è citato in apertura di questo post. “Anche tu ti ricordi!” si riferisce alle cancellate, fantasiose nei disegni e variopinte, datate 1960-1989, con cui i tedeschi della ex Ddr recintavano le loro grigie esistenze domestiche. Progressivamente sostituite da moderne cancellate standard, di mercato, oggi possiamo vederle ritratte su tessere quadrate, oggetto di un gioco di memoria (doppio senso). Basta ricordare, per giocare, dove si trova la tessera gemella di ogni cancellata riprodotta.
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Il gioco (nato a seguito di una mostra) è un banale gioco di memoria (di breve termine) che, oltre a far associare tra loro le coppie di tessere mescolate, vuole far “ricordare la memoria collettiva dell’intera nazione”. Ma cosa dovremmo ricordare: la creatività dal basso, con cui i tedeschi orientali rispondevano alla mancanza di merci, suggerisce il retro della scatola del gioco, o la memoria della Ddr, come è scritto nel foglietto interno alla scatola? Forse la complessità dell’insieme, suggerirei io al lettore.

Quale memoria per la comunicazione

Rispondo qui a uno scambio di commenti via mail, perchè il mio blog funzioni (per me) anche da promemoria.
Sull’apparente contraddizione che un lettore ha notato: da un lato non esiste comunicazione senza memoria, dall’altro c’è (nella società attuale) una tensione tra memoria e comunicazione.
Innanzitutto questa tensione tra memoria e comunicazione è un problema abbastanza moderno. Non è quindi scontata, ma ha una sua realtà storicamente definita.
In secondo luogo, bisognerebbe intendersi su cosa è (su cosa si intende con) la memoria. Dietro a questa parola si nasconde una complessità inaudita, pari a quella che sta dietro la parola comunicazione.
Quindi la memoria che va d’accordo con la comunicazione come processo del sociale è qualcosa di diverso dalla memoria incarnata e vissuta che, con quella comunicazione lì, ha invece qualche problema. La memoria di cui parla ad esempio la teoria dei sistemi sociali di Luhmann (ops) è infatti una mera struttura di ridondanza, che gestisce problemi tutti sistemici di gestione della complessità e di costruzione della realtà del sistema della società, e non ha nulla a che fare con l’idea di passato, di ricordo, di memoria di cui parliamo nel linguaggio ordinario.

memoria e comunicazione

Cosa c’entra la comunicazione in un blog dedicato alla memoria (delle cose)? Innanzitutto non esiste memoria senza comunicazione, e quindi la memoria è un problema della comunicazione (e chi si occupa di comunicazione se ne dovrebbe necessariamente preoccupare).
Allo stesso tempo la memoria è qualcosa di qualitativamente diverso dalla comunicazione, è soggetta a vincoli e ha radici differenti, e questo fa del rapporto memoria-comunicazione qualcosa di complesso, e anche conflittuale, a volte doloroso. Perchè le radici della memoria sono nei corpi, mentre la comunicazione, sappiamo bene, è un processo del sociale.
Il rapporto tra memoria e comunicazione è al centro della mia ultima fatica (un libro), di cui vi (a chi, poi?) mostro in anteprima la copertina (non sarà visibile dal vero prima di fine aprile).

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Ricordando Baudrillard: l’oblio delle cose

Jean Baudrillard è purtroppo scomparso, ormai la settimana scorsa. Oggi lo ricorda meritoriamente Alias, il supplemento del sabato de Il Manifesto, ma mi permetto di aggiungere qualcos’altro per cui credo Baudrillard meriti di essere ricordato.

Negli anni Settanta Baudrillard analizzava la società dei consumi, e la trasformazione delle cose in oggetti di consumo, strumenti attraverso i quali gli individui facevano propria, inconsapevolmente, la logica sociale più allargata e astratta delle differenze di classe. Gli oggetti di consumo erano in altre parole lo strumento attraverso il quale l’ordine sociale della differenza si insinuava nei cervelli e nei corpi (i sociologi dicono: veniva interiorizzato, ma non so quanto questa parola sia capace di esprimere la concretezza di questa incorporazione, che non si ferma nella mente). 
Il collegamento con la memoria?

Gli oggetti di consumo sono cose che si trasformano in puro segno della differenza, segno del codice della società stratificata, e si dimenticano di tutte le valenze soggettive e relazionali di cui potrebbero essere investite, ma che offuscherebbero il loro valore di segno differenziale. Gli oggetti di consumo sono senza memoria, perchè ciò ostacolerebbe la loro libera circolazione come puro segno della differenza. Se oggi forse non è questa la logica prevalente, ossia non più quella della differenza di classe, l’idea rimane, il processo di incorporazione pure, e può aiutarci a capire il rapporto tra la memoria e le cose, se si guarda bene.

Grazie, Baudrillard. alias.jpgalias.jpgalias.jpg

memoria di me: diari o blog?

Cosa rimane delle memorie vissute? diari, lettere, autobiografie, memorie, post-it… Da tempo a queste memorie minute è stata riconosciuta dignità, non solo dagli storici, quelli della tradizione di Bloch e gli stessi esponenti della storia orale. Può quindi capitare di trovare sulla carta geografica una Città del diario, dove da oltre 20 anni si sperimenta la costruzione di una “banca della memoria”. A Pieve Santo Stefano, nel centro dell’Appennino, si stanno sedimentando negli anni queste memorie vissute, organizzate attraverso un archivio. Non è un’esperienza unica in Italia, altri esempi di attenzione alle memorie autobiografiche dal basso possono essere rintracciati, e forse ne racconteremo qui.
Queste memorie acquisiscono dignità, attraverso questi Archivi, e raccolgono l’attenzione di studiosi o di semplici lettori e ascoltatori.
Quanto di un diario autobiografico c’è in un blog? in altre parole: quanti vissuti sono raccontati in un blog, e quanta informazione?

la forza simbolica della parola

Nel maggio 1968 si è presa la parola come nel 1789 (sempre in Francia) è stata presa la Bastiglia. E’ una celebre affermazione del grande Michel de Certeau, del quale esce ora per Meltemi una raccolta di saggi dal titolo La presa della parola e altri scritti politici, recensita su Alias del 3 marzo scorso da Andrea Cavalletti. de Certeau nel maggio francese, nella presa di parola di studenti e operai, non vedeva tanto la conquista del potere quanto la denuncia di una mancanza, della mancanza di partecipazione da parte degli assoggettati. Questa presa di parola, che non cambiava necessariamente le strutture sociali ma ne mostrava le mancanze, rappresentava un “cambiamento qualitativo” (una rivoluzione) perché affermava che da quel momento in poi non poteva più essere chiamato vivere un vivere che alienasse la parola. La parola rivendicava se stessa come bisogno, nota Cavalletti, e chiamava così in causa un cambiamento radicale del sistema culturale.

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Il punto sarebbe dunque non tanto dire qualcosa in sé, ma il gesto in sé rivoluzionario sarebbe il prendere parola.
Questa rivendicazione della parola come bisogno, inalienabile e irriducibile, è allora forse l’origine della proliferazione dei blog, come nuova forma contemporanea del “prendere parola”, adatta ai linguaggi e ai luoghi d’oggi? Possiamo quindi paragonarla al parlare in cattedra degli studenti e degli operai del maggio francese?
E se è così, il dato che attraverso i blog prendano parola non solo studenti e operai (ovvio) ma chiunque, cosa significa? che sono tutti assoggettati e hanno tutti bisogno di trovare luoghi dove prendere parola?
E, infine, perchè non voglio esagerare con le domande: il fatto che questa presa di parola OGGI venga in fondo tollerata, anzi addirittura incentivata, significa che dal maggio ’68 ad oggi si è prodotto un ulteriore cambiamento radicale? Mi viene il dubbio che la presa di parola, rivoluzionaria sì in quanto moto da dentro, dal punto di vista delle strutture sociali, della comunicazione, non debba essere più considerata tale. La rivoluzione che si è prodotta negli ultimi anni, e che sta sullo sfondo della presa di parola attraverso le stesse conversazioni dal basso dei blog, riguarda proprio le strutture sociali e della comunicazione, che della presa di parola altrui si nutrono, delegando loro la produzione dei contenuti che per loro sono indifferenti.
La domanda risuona allora: questa presa di parola (attraverso i blog, ma non solo) riesce a mantenere la sua forza simbolica?
Spero che anche di questo si parli il 20 aprile a Pesaro, io ci sono.

memoria e turismo

che cosa c’entra la memoria con il turismo. Ci ragiono da un po’, a cominciare da una gita a Brescello di qualche anno fa, che per me è stata una sorta di viaggio nel tempo, con tratti anacronistici.
brescello005.jpg Benvenuti a Brescello, foto mia (Roberta Bartoletti)

Si tratta in generale della capacità del mercato di alimentarsi delle emozioni: il turismo della memoria è quello capace di commercializzare ricordi e memorie di generazioni, di genti, popoli e luoghi. Possono essere memorie vissute, che vengono in qualche modo generalizzate per divenire attrattive per altri, oppure memorie inventate, ma non per questo meno concrete e reali nella loro potenza immaginativa.
Alcuni risultati di queste riflessioni sono al centro di una relazione su Tourism of memory: the marketing of nostalgia. The case history of Heidiland and of East Germany, che presenterò nel giugno prossimo al 6th International Symposium on Aspects of Tourism organizzato dall’Università di Brighton UK.

memoria e generazioni (la mia)

Non so se i quarantenni di oggi sono una generazione. Forse quelli che sono passati e rimasti un po’ a Bologna durante gli anni cruciali della loro formazione hanno qualche chance di esserlo. Per quanto mi riguarda, penso a quelli cresciuti all’ombra delle storie di Magnus. Anche se non posso non ricordare che Magnus (Kriminal e Alan Ford) è entrato nella mia immaginazione grazie alla passione per i fumetti di mia madre (tutt’altra generazione).
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Magnus è oggi ricordato da una mostra all’interno del primo Festival internazionale del fumetto che si terrà a Bologna dal 14 al 18 marzo, non a caso qui, in una città che ha tantissimi difetti, ma ha saputo mantenere nel tempo il suo amore per il fumetto.

Aggiornamento di maggio: vista la mostra, Magnus meritava decisamente di meglio. Molto più bella, incomparabilmente, la mostra sul lavoro a fumetti che gli ha dedicato Toffolo.

memoria e generazioni

Cosa rende un gruppo di persone “una generazione”? che è un modo di chiedersi cosa rende uguali uomini e donne che condividono lo stesso tempo, e quindi probabilmente gli stessi vissuti. Una risposta tra le tante si trova nel libro di Marc Bloch sulla società feudale, come ricordava lo storico medioevista Alessandro Barbero, nella puntata di Damasco di martedì 27 febbraio (RadioRai3), scaricabile ancora dal sito. Magnifico racconto di un libro di storia, che parla tra l’altro delle condizioni di vita e dell’atmosfera mentale, delle “maniere di sentire e di pensare”, della memoria collettiva che è alla base dell’idea stessa di generazione. Memoria che non è solo nella mente, ma anche (e soprattutto) nei corpi.

(post destinato agli studiosi di comunicazione)


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