Archive for the 'oggetti' Category

oggetti del mito

Il feticcio, nella sua accezione originaria, era un oggetto indigeno che inspiegabilmente non poteva essere scambiato. Non poteva essere alienato, non poteva essere ceduto ai mercanti portoghesi che arrivavano sulle coste africane agli albori dell’età moderna.
Difficile oggi raccontare queste storie, così lontane seppur ancora vicine. Difficile spiegare cos’è l’etnocentrismo, di cui crediamo di esserci liberati. Difficile raccontare oggetti e terre (e uomini) costruiti dal mito.
Per questi motivi, e tanti altri, ho fatto vedere ai miei studenti un brano di questo fantastico film.
Questo è il posto dove sognano le formiche verdi, che si ostinano a sognare proprio lì.

(continua…)

la casa degli antenati

Nei mesi scorsi abbiamo visitato diversi musei etnografici e antropologici, per lavoro e per diletto, tra Italia, Francia e Svizzera. Tra questi, il Quai Branly di Parigi è sicuramente il più strabiliante e il più ammiccante a un pubblico di massa. Ma contiene testimonianze di culture primitive veramente stupefacenti, da lasciare a bocca aperta per la meraviglia.
Tra queste, ricordo ora e qui le case degli antenati – maison des esprit, maison des hommes -, stupefacenti per bellezza ma anche per il concetto, abbastanza diffuso nel mondo primitivo, che esprime la capacità dei vivi di restare in contatto con i propri antenati, di mantenere vivo il contatto tra passato, presente e futuro.

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Ognuno ha i suoi antenati, forse un vantaggio della modernità sta nel poter scegliere i propri: quelli i cui valori e le cui gesta rappresentano le origini da cui ci piace iniziare ad esistere, anche noi.
Partigiani, operai e contadini, uomini e donne. Questi sono i miei antenati.
E la Rinascita di San Vito è una vera e propria casa degli antenati, ma a questo dedico poi il un prossimo post.

Velo e violenza/ sul femminile

Il post di ieri, che avvicinava Heidi e Barbie attraverso un comune riferimento al velo islamico, anticipa un tema oggi in agenda, della politica e forse dei media. Nessuna campagna tra blogger, mi sembra sia stata prevista. Come per i monaci intendo. A me dispiace molto. Invito le mie amiche blogger a rifletterci, invece*.
Oggi è una giornata nazionale di mobilitazione contro la violenza sulle donne, che assume volti molto differenti: dalle botte e dall’omicidio, dentro o fuori la famiglia, alla violenza sessuale fino alle forme più sottili e profonde di violenza simbolica. L’idea è che tutte queste forme di violenza rivolte specificamente al femminile, a quello che il femminile rappresenta nel mondo, siano strettamente connesse, si sostengano a vicenda. Ognuna di esse ci dovrebbe far rabbrividire. Non occorre arrivare all’annientamento della vita, seppur questo sia l’esito più terribile, se non altro per la sua irreversibilità.

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Sottolineo oggi il tema della violenza contro il femminile attraverso un film di una regista libanese di cui ho letto stamattina su Alias (articolo di Silvana Silvestri in occasione degli Incontri di cinema e donne di Firenze). Il film è Dunia, girato in Egitto e uscito nelle sale europee nel 2006 (in Francia sicuramente), la regista è Jocelyn Saab, libanese che vive tra Parigi e Beirut. Il film in Egitto è stato visibile nelle sale una sola settimana, poi è stato ritirato (malgrado le code ai botteghini) e la regista minacciata e condannata a morte dalle donne, in quanto il film è contro la mutilazione femminile (l’escissione, che riguarderebbe il 97% delle donne egiziane) che è una tradizione tramandata dalle donne. Donne contro donne, come forma suprema della violenza sul femminile.
Il film, che ha per protagonista una giovane attrice egiziana, star di film commerciali, racconta la storia di una ragazza che attraverso lo studio della danza si riappropria del proprio corpo, attraverso la danza e l’amore. La regista racconta su Alias che la stessa attrice ha vissuto profondi cambiamenti durante le riprese ma, appena terminate, è comparsa in televisione velata a rinnegare il film e la regista, a dire che il cinema deve essere velato. La regista libanese conclude la sua intervista con un giudizio molto lapidario sul velo: “più la donna è velata, meno libertà c’è in giro per il mondo”. Ovviamente, aggiungo, non è il velo in sè, ma il velo trasformato, che da una mera tradizione vestimentiaria diventa un vero e proprio strumento simbolico del controllo del corpo e del sentire femminile.

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Il film è disponibile in dvd (in arabo con sottotitoli in francese, inglese e tedesco, per 22 euro), e un trailer si trova su YouTube, e dopo il ritiro dalle sale egiziane è circolato in Internet dove è stato visto da 4 milioni di persone. Questo post vuole anche essere un piccolo promo commerciale. Perchè registe come la Saab possano continuare a lavorare.

*PS: mi aspetto un post almeno da laura, chiara e valentina (e forse giulia, se è veramente tornata…). Solo per restare entro il mio blogroll al femminile. E’ un obiettivo minimo, insomma.

cose da turchi (non solo)

E’ di ieri la notizia su Repubblica che una casa editrice turca ha adattato alla cultura islamica la cristianissima storia di Heidi, la piccola orfana che oltre ad essere un mito nella sua natia svizzera è un mito globale, con risonanza su tutti i media di tutto il mondo.

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l’Heidi di Miyazaki

La casa editrice turca Karanfil ha infatti cambiato le illustrazioni che accompagnano il romanzo della scrittice ottocentesca, Johanna Spyri, allungando l’abitino di Heidi per nascondere le mutande (che in particolare nella storia animata dal grande Miyazaki sono spesso visibili), e ha “imposto” il velo alla nonna di Clara e alla signorina Rottermeier. Come se la rigidità morale e bigotta di questa seconda signorina non fosse stata sufficiente nella sua versione originale.
La casa editrice turca ha quindi indigenizzato il prodotto culturale Heidi (direbbe forse Appadurai) per renderlo più vicino alla quotidianità dei bambini turchi. Peccato che la Turchia non sia unanimemente considerata un paese confessionale (islamico), anzi, per alcune significative voci (di cui dà conto la stessa stampa turca) dovrebbe essere un paese laico. La risonanza interna della notizia riguarda dunque una diversa visione della cultura che sarebbe lo sfondo ordinario delle bambine e dei bambini turchi.

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a sinistra: illustrazione originale; a destra: illustrazione del libro turco, commentato dal quotidiano turco Aksam che si preoccupa di “cosa debba sopportare l’aristocratica signora Sesemann”, coperta da velo e abito islamico (pubblicate da die Welt.

La vicenda non è nuova nè particolamente strabiliante. Per chi si occupa di oggetti di consumo, e tra questi di giocattoli, gli esempi negli anni recenti si sprecano. Ne cito solo uno: Fulla, che possiamo considerare la variante islamica della Barbie occidentale. Fulla è un prodotto di origine siriana, e si presenta con caratteri contraddittori ma assai intriganti: rispettosa dei genitori e coperta dalla testa ai piedi da un manto nero, ama però parecchio lo shopping. Ho portato la mia Fulla a lezione la settimana scorsa, per mostrarla ai miei studenti (che fra l’altro mi hanno insinuato il dubbio che sia tarocca: ci sono già le contraffazioni!): l’esercizio prevedeva un’analisi accurata del prodotto, fin nelle sue caratteristiche più intime. Fulla (a differenza di Barbie), non può essere interamente spogliata, perchè sotto il vestito coperto a sua volta dal tradizionale manto nero (l’abaya) ha disegnata una mutanda. Incorporata.

mia_fulla.jpg la mia Fulla

il denaro: simbolo nella prima e nella seconda vita

Il denaro moderno è un oggetto che ci dice molto sulla memoria, sul suo statuto attuale. Più precisamente, ci dice molto dell’oblio. Il denaro è un oggetto che opera senza memoria, dicono alcuni. Il denaro è un grande operatore dello sradicamento e dell’oblio.
Il denaro è quindi una grande realizzazione simbolica della modernità, prima ancora e più che un mero strumento economico. A questo ho dedicato già tante pagine, e adesso vorrei andare avanti, trovando nuove strade e nuovi luoghi di osservazione.

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Qualche giorno fa con la mia amica fashion victim abbiamo ceduto a un raptus e siamo andate a campeggiare in un’isola dedicata al camping in second life: “campeggiare” significa nel gergo di quel mondo online stare seduti da qualche parte, tipo figuranti, e guadagnare linden dollar in base al tempo che si rimane a stazionare. Volevamo comprare vestiti per i nostri avatar ancora relativamente basici, e abbiamo agito d’impulso, un po’ irrazionalmente. Ma da questo impulso insensato (inconscio = incorporato, interiorizzato) è maturata lentamente la mia curiosità sul rapporto con il simbolo-denaro nella second life. Con il second-simbolo-denaro, cioè. Una conversazione animata con Luca, esperto conoscitore dei mondi online, ha rafforzato questa curiosità, e sta prendendo forma il progetto di una ricerca etnografica (chissà quando riesco a farla, mah). Per costringermi a farla davvero ne ho parlato anche con GG, e adesso mi espongo pubblicamente su questo blog. (Ormai è l’unico modo per fare davvero le cose che mi interessano).

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Io ho iniziato la mia osservazione partecipante la settimana scorsa, lavando pavimenti per 2 linden dollar l’ora nell’affollatissimo “Moscow Mall” (affollatissimo di lavapavimenti, non di acquirenti), che riproduce il Gum in second life, di cui ho già parlato (qui). Tra stare a carponi con uno straccio in mano e usare una moderna scopa ho preferito la seconda opzione. Gli avatar che stavano facendo il mio stesso lavoro non hanno risposto ai miei timidi approcci (probabilmente stavano altrove affaccendati nella first life, passando ogni tanto davanti al computer per ravvivare il loro avatar ed evitare di essere scacciati dalla postazione, come è capitato infatti a me dopo una mezz’oretta buona di inattività: ero a cena).

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Intanto, CERCANSI avatar che hanno campeggiato o svolto attività analoghe per fare second denaro: potreste raccontarci come vi è venuto in mente di farlo, perchè, e cosa ne avete fatto dei linden dollar che avete “guadagnato”? perchè avete preferito campeggiare anzichè comprare linden dollar? Questo e quant’altro vi viene in mente mi piacerebbe che ci raccontaste qui sotto. O via mail a: roberta.bartoletti@uniurb.it

Second Lenin

Il 7 novembre scorso è stato il 90° anniversario della rivoluzione di Ottobre, che dal 2005 non è più festeggiato nemmeno in Russia, per non parlare delle altre repubbliche ex sovietiche. La festività che ha preso il posto di quella data nel calendario russo ricorda la cacciata dei polacchi da Mosca, nel XVIII secolo (un po’ curioso, no?). Evidentemente quell’evento, pur rivoluzionario, quindi nuovo inizio nella storia russa, non è più riconosciuto come fondante. La rivoluzione dell’Ottobre 1917 non è più un mito fondatore (un mito storico, ovviamente, con radici in un passato ancora accessibile alla memoria di alcuni).
Non se ne parla granché in Russia, figuriamoci altrove. Il Manifesto, quotidiano veramente controcorrente, insiste nel ricordare queste date e questi anniversari che sembrano non interessare più nessuno. Credo che più che retrò siano impertinenti, visto che l’oblio non è mai casuale, e loro rigirano il coltello in una piaga che molti vorrebbero dimenticare.
Il 7 novembre 2007 è uscito un bellissimo libro in edicola, dal titolo forse fuorviante “I rifugi di Lenin”: è un resoconto del viaggio nella Russia contemporanea del giornalista Astrit Dakli e del fotografo Mario Dondero, che si interrogano su cosa resta, di quel passato mitico (nell’accezione di cui sopra), ormai non solo desacralizzato, ma ampiamente rimosso.

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statua di Lenin a Mosca, piazza dell’Ottobre

Il racconto inizia dalla piazza dell’Ottobre, a Mosca, dove ancora abita una enorme statua di Lenin. La piazza, che non è neppure propriamente tale, è bruttissima, afferma Dakli e conferma la sottoscritta, e l’impressione è che non sia stata rimossa perchè in fondo non dava tanto fastidio. In realtà, per quanto strano possa sembrare, Lenin continua ad essere considerato un padre fondatore, anche nella Russia contemporanea che ha rinnegato la Rivoluzione di Ottobre. Non è quindi un caso che mentre nel resto del mondo le statue di Lenin vengono rimosse, a Mosca restano al loro posto. Ancora più significativa la permanenza del corpo di Lenin nel santuario addossato al centro del potere russo – il Cremlino – nella mitica piazza rossa. Qui Lenin, le sue mortali spoglie che tanto mortali non sembrano, devono convivere forzatamente non solo con il potere attuale, ma anche con il volto più sfacciato del mercato: di fronte al mausoleo (architettura peraltro bellissima) gli ex magazzini di stato Gum sono oggi sede delle più note e costose marche del mondo (anche italiane). Magazzini di lusso, del lusso più sfacciato, proprio in fronte al corpo imbalsamato di Lenin. Tante contraddizioni dicono tanto, non solo sulla Russia contemporanea, ma sullo stato del mondo.

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Ma questi secondi Lenin, corpi senza vita, evidentemente non bastavano. Nell’isola di Second Life che riproduce la Piazza Rossa di Mosca è stato realisticamente riprodotto il mausoleo di Lenin, mancano solo le guardie e la coda per entrare: si entra direttamente attraverso una porta automatica, non c’è il percorso obbligato di avvicinamento lento e rispettoso alla salma, che appare quindi immediatamente e un po’ brutalmente. Fuori dal mausoleo, il Cremlino, San Basilio e gli ex magazzini Gum, dove gli avatar che vogliono guadagnare qualche Linden Dollar possono mettersi per un’oretta a pulire i lucenti pavimenti di marmo dei corridoi interni, carponi per terra, con secchio accanto e straccio in mano. Come mai questa second life assomiglia tanto schifosamente alla prima, quando si tratta di denaro?

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antenato ciclostile

ho letto questa parola – ciclostile – qualche giorno fa e continua a frullarmi nella mente.
che tenerezza.
era una parola che non sentivo pronunciare da secoli.
non potevo non dedicare un piccolo articolo a questo oggetto di memoria. oggetto da museo. assolutamente démodé.
vorrei un blog che tra i suoi antenati può vantare un ciclostile. si può?

scambi simbolici di figurine rosse

Mentre il più grande partito della sinistra italiana si preparava a dissolversi – ossia: alla vigilia delle primarie del Pd – il manifesto ha portato in edicola la sua ultima trovata irriverente e finanche un po’ eretica. Autoirriverente, dato che il quotidiano insiste a definirsi nel sottotitolo comunista.

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Oggi, con un paio di giorni di ritardo, sono andata dal mio giornalaio per prendere una copia di Album di famiglia, l’album di figurine rosse. Sottotitolo: comunisti, anarchici, socialisti e altri rivoluzionari che, nel bene e nel male, hanno cambiato il mondo. Vedo se ne ho ancora, mi dice Massimo (il mio edicolante). Cosa vorresti dire, che è andato a ruba? (mi stupisco io). Beh, tutti quelli che hanno comprato il giornale, l’hanno preso (deduco che sono molti meno di quelli che ieri a Bologna sono andati a votare alle primarie). Peccato, perchè avendo preso l’album mi si pone un problema: con chi potrò scambiare le figurine doppie?
L’ultima figurina che mi ricordo di avere incollato era un oscuro animale marino, che andava a ricoprire quasi perfettamente un buco bianco in un fondale scuro. Per non parlare di altre figurine ancora meno memorabili. In realtà “le figurine” sono quelle dei calciatori, che se ne vedo ancora una degli anni ’70 riconosco le facce, le divise tutt’altro che griffate. Che tenerezza.

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La rilevanza di questo album di famiglia per la memoria è sottolineata da Valentino Parlato in un piccolo intervento di ieri. Che dimostra come si tratti di una storia seria, oltre le apparenze.
Scrive Parlato, sollecitato dall’affettuoso epiteto di “ereticissimi compagni” che alla fine condivide: “ancora cinquant’anni fa queste figurine erano immagini non proprio sacre, ma meritevoli di enorme rispetto. Insomma l’eresia c’è e a uno della mia generazione il tutto appare un po’ blasfemo”, per poi aggiungere che forse una tale eresia non poteva che essere compiuta da dentro, in un momento in cui ricordare il passato, anche in modo autoironico, può essere utile in un “presente che rischia di galleggiare nel vuoto della memoria”.
Le figurine degli uomini che hanno cambiato il mondo, riconosciuti come antenati da alcuni (sottolineo da alcuni), sono quindi un luogo di memoria di cruciale importanza non per il passato, ma per il presente.
In secondo luogo, le figurine vanno sì incollate (appiccicate), sul proprio album, ma fa parte del gioco la necessità di scambiarle, di trovare quindi altri possessori di album, altri compagni della stessa famiglia, con cui scambiare: il gioco è necessariamente collettivo. La figurina è un quasi-oggetto, direbbe qualcuno.
Ultima riflessione, implicita nelle parole di Parlato: possibile che la famiglia per ritrovare le sue radici debba andare in edicola e sborsare 0,90 euro per 5 figurine? Ma chi mi conosce, sa che questa domanda me la sono posta già tante volte, che ci ho perfino scritto un libro

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Finito il post, finalmente ho aperto la mia prima bustina, non potevo credere ai miei occhi quando ho visto il profilo notissimo di Rosa Luxemburg (1871-1919). Voglio prenderlo come un segno del destino. Per ora non posso che continuare la raccolta, e cercare qualcuno con cui scambiare le figurine doppie, anche attraverso il blog.

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Aggiornamento ore 17.41: ho attaccato la prima figurina nell’album, Rosa Luxemburg, riconosciuta come antenata in quanto “polacca, comunista, donna, ebrea: il “peggio” per la Germania di allora. Dirigente della sinistra Spd. Incarcerata per il suo no alla guerra, assassinata – con il benestare dei suoi ex compagni di partito – per aver tentato la rivoluzione. Da leggere Centralismo o democrazia?

consumo e memoria

sto faticosamente tentando di scrivere un articolo. in teoria è già scritto, ma solo in teoria. è tutto nella testa ma non riesce a mettersi in ordine sulla carta. estremo tentativo: anticipare il contenuto sul blog.
devo scrivere un articolo su come il consumo ha un ruolo nella produzione delle biografie individuali (e collettive). è chiaro che c’entra la memoria, la capacità degli oggetti materiali di fissare i significati. un individuo e un gruppo riescono a fissare il senso della loro esistenza grazie a una costellazione di oggetti che in qualche modo li caratterizzano. che li rendono specifici. fin qui niente di nuovo.
la cosa che credo sia interessante è questa: nell’ex Germania Orientale, dopo la caduta del muro di Berlino, la trasformazione dei prodotti della società socialista in merci (o oggetti di consumo nell’accezione occidentale, di mercato) è stato paradossalmente il modo con cui i tedeschi dell’est sono riusciti ad affermare in modo positivo, assertivo, il valore delle loro biografie e della loro identità. ad affermarla in opposizione alle descrizioni delle loro biografie e della loro identità che venivano prodotte a Ovest (e che continuano ad essere prodotte ad ovest, malgrado loro).
credo che questo sia un bell’esempio di uso non proprio ortodosso dei significati e delle logiche più profonde delle merci. anche se non si può nemmeno essere troppo entusiasti. anche se non nega gli aspetti più macroscopici delle trasformazioni della germania orientale e dei paesi dell’est in genere (ho letto cronache preoccupanti sull’Ungheria, recentemente).

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Letture consigliate, a me innanzitutto (già ordinato in libreria): Vite nuove, romanzo dello scrittore di Dresda Ingo Schulze. Qui un’intervista.

Aggiornamento di inizio 2008: Vite nuove lo sto ancora leggendo, ma l’articolo ho finito di scriverlo da un pezzo. Alla fine si intitola La fabbrica delle memorie ed è pubblicato qui, per chi fosse interessato a leggerlo.

memorie operaie

Quando facevo le scuole elementari io, non si studiava ancora inglese (in realtà un poco sì, ma non conta): si studiava il proprio territorio. Si andava in giro, capitava di fare pochi passi e di trovarsi tra i campi e i maceri. Tra le prime gite – credo verso la fine degli anni Settanta – ho un ricordo ormai mitico di una visita al museo della civiltà contadina di San Marino in Bentivoglio (sempre nella bassa bolognese: i Bentivoglio erano i signori di Bologna). Già allora il mondo e la vita contadina erano diventati luoghi di memoria, in via di scomparsa e allo stesso tempo riconosciuti come meritevoli di essere ricordati. Così il mondo dei braccianti (gli operai contadini) ha in qualche modo avuto per primo questo riconoscimento, questa attenzione. Non a caso il coro delle mondine di Bentivoglio si costituisce proprio in quegli anni.
Mi viene in mente ora che fu proprio lì che scoprii come si scriveva una parola la cui sonorità mi era familiare, ma che apparteneva solo alla lingua orale: l’arzdàura, in italiano significa la reggitrice. Capii anche a cosa servivano i maceri che facevano parte di un paesaggio di pianura familiare ma allo stesso tempo ormai alieno, per una bambina urbanizzata come me.

Mi chiedo invece cosa sta accadendo alle memorie operaie urbane, industriali, che negli anni Settanta, non solo in Italia, erano ancora al centro del mondo. Verranno fatti dei musei a ricordarli, e come si chiameranno? Quali luoghi possiamo oggi rintracciare come luoghi di memoria di questo mondo che negli ultimi trent’anni ha subito profonde trasformazioni?
Ovviamente qualche idea ce l’ho, ma ci sto lavorando.

cantare per ricordare/il cantourlato delle mondine

Ieri sera alla festa nazionale dell’Unità, che si tiene quest’anno a Bologna, hanno cantato le mondine di Bentivoglio. Il gruppo di donne, oggi tra i sessanta e gli ottanta anni, così a occhio, rappresenta l’ultima generazione di mondine che hanno lavorato nelle risaie della campagna bolognese, la bassa a nord della città. Trent’anni fa circa, raccontava la mondina Renata all’inizio del concerto, una maestra di scuola elementare di Bentivoglio le invitò perchè raccontassero la loro storia ai bambini, e così comincio la loro avventura, che ha avuto una breve pausa di arresto, ma recentemente si è riattivata. Hanno cantato per due ore – con un’energia da non credere – le loro canzoni di lotta, in parte d’autore e in parte inventate dalle stesse mondine, che nelle risaie non potevano parlare (dovevano lavorare) e allora cantavano, la loro protesta ma anche la loro irriverente giovinezza.
L’occasione non era unica, perchè le mondine di Bentivoglio canteranno in giro anche nei prossimi giorni, e spero che continuino anche l’anno prossimo il loro corso, perchè la loro storia e la loro forza continui a essere cantata. Chi volesse affiancarsi a loro può contattarle all’indirizzo che ho trovato sul cd che raccoglie alcuni loro canti: mondinedibentivoglio@email.it

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le mondine di Bentivoglio

ps: gli antropologi che studiano il consumo ci dicono che trasferiamo significati dalle cose alle persone, a volte gli oggetti servono ad appropriarsi di qualità che culturalmente attribuiamo loro. Immaginate quindi perchè sono tanto fiera di possedere la bicicletta di una mondina di Molinella (e immensamente grata a Gigi che me l’ha regalata), pur essendo sicura di non meritarmela.

mi ricordo il 2 agosto 1980

La mattina del 2 agosto 1980 ero in centro, a Bologna. Per centro i bolognesi intendono in generale la città entro le mura, entro la terza cinta muraria. Cercavo un regalo per mia cugina, che compie gli anni quel giorno. Mentre tornavo a casa in autobus sentivo delle sirene di ambulanza, lungo la via emilia ponente una quantità di ambulanze fuori dal normale, che dall’Ospedale Maggiore correvano in direzione del centro della città (la stazione è a nord, lungo la circonvallazione). Il mio ricordo del 2 agosto 1980 sono quelle sirene di ambulanza, e lo schiaffone che mi accolse a casa, segno che la preoccupazione della mia famiglia allargata si era dissolta vedendo che ero tornata sana e salva. Dopo lo stupore per lo schiaffo, lo shock della notizia e delle prime immagini della strage, della stazione sventrata, dei soccorritori e delle vittime.

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Da bolognese ho molto apprezzato il libro di una collega, Annalisa Tota, che ha dedicato a questa strage e ai suoi oggetti una ricerca, innescata dalle sue frequentazioni di pendolare della sala d’aspetto della stazione di Bologna, dove la bomba fu messa, dove la bomba scoppiò e dove oggi si trova una lapide trasparente e una breccia nel muro, a memoria della ferita nel corpo della città, che è rimasta come suo tratto identitario.
Se la strage ha lasciato delle tracce indelebili nei corpi, di quelli che c’erano, che hanno vissuto in diretta l’evento, di quelli che ne hanno ascoltato il racconto, perché resti come elemento di una memoria collettiva più allargata (cittadina, nazionale, politica, …) ha bisogno delle sue oggettivazioni. Sono oggetti di memoria della strage del 2 agosto (oggetti in senso materiale) l’orologio di sinistra, all’ingresso principale della stazione, fermo alle 10,25, che solo a viaggiatori disattenti può sembrare un segno di inefficienza delle ferrovie dello stato, e, più remoto e invisibile, l’autobus rosso e giallo della linea 37 che il 2 agosto, su iniziativa dei tramvieri dell’Atc, fu adibito ad ambulanza di fortuna e a mezzo di trasporto delle salme. Oggi l’autobus 37 è conservato nel Museo dell’azienda dei trasporti locali (la stessa che accoglie in un suo ex deposito quel che resta dell’aereo di Ustica). Questi oggetti sono oggetti di memoria perché c’è volontà di ricordare – non solo dell’Associazione dei familiari delle vittime, non solo dell’Amministrazione comunale o dell’Azienda dei trasporti locali – e contemporaneamente il pericolo di dimenticare. Questo fa del 2 agosto 1980 un luogo di memoria.


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